Dionysus – Il dio nato due volte
In scena in prima nazionale al Teatro Vascello di Roma, fino al 13 marzo, una rilettura in chiave contemporanea dell’opera di Euripide tesa ad indagare nel profondo il mistero del dio dell’Irrazionale.
Hanno una criniera lunga e bianca, corna aguzze, gambe vogliose e scalpitanti, occhi iniettati di sangue, un corpo perennemente vibrante quasi percorso da continue scosse elettriche e si muovono scalze sul palco brandendo il tirso al grido “evoé”, in una vertigine di danze tribali, balzi, contorcimenti accompagnati ora da grida animalesche e grugniti, ora da sussurri e affanni sensuali.
Sono le Baccanti, le otto energiche protagoniste della pièce Dionysus-Il dio nato due volte, in prima nazionale al teatro Vascello dal 4 al 13 marzo, riscrittura in chiave contemporanea de Le Baccanti di Euripide, firmata, diretta e interpretata brillantemente da Daniele Salvo, nel ruolo di Dioniso insieme ad un cast di quattordici interpreti.
Con la loro incontenibile forza vitale, le Baccanti travolgono il pubblico, “iniziandolo” ai riti dionisiaci. Il coinvolgimento emotivo avviene sin dal prologo, in cui volteggia nell’aria il presagio di una vendetta spietata, di un dramma imminente, sottolineato dalle immagini sinistre di fiamme e di terreni aridi e screpolati, proiettate sullo schermo in fondo alla scena. Dioniso è furente: ha appreso che Penteo, re di Tebe (Ivan Alovisio), ha sparso la voce secondo cui egli non sarebbe nato da Zeus ma da una relazione tra Semele ed un mortale; decide allora di scendere tra gli uomini per dimostrare a tutta Tebe chi è il dio, scatenando terremoti ed atroci dolori per i suoi abitanti.
Da allora in poi è un crescendo di pathos, che, dopo circa due ore di spettacolo, culminerà con la straziante uccisione di Penteo, costretto a travestirsi da donna e ad implorare invano pietà, finendo squarciato vivo dalle mani della sua stessa madre Agave (Manuela Kustermann) che, accecata da una trance orgiastica, lo scambia per un leone e ne infilza la testa, trionfante, su di un bastone, le mani e le vesti imbrattate di sangue.
Il delirio di Agave è ormai condiviso con la platea. Lo spettatore è stordito dalle luci che, passando dal verde acqua, all’azzurro, al rosso demoniaco, inondano il palcoscenico. Anche le sonorità rivestono un ruolo centrale nella narrazione: la musica sottolinea o anticipa i pensieri dei protagonisti, facendosi a tratti lirica e armoniosa, a tratti tetra e primitiva, come nell’echeggiare del battito lento del tamburo. Si tratta, come spiega il regista, di «suoni privatissimi, poco utilizzati nel quotidiano ed altamente significanti, suoni di false corde, falsetti estremi, stimbrati, sgranati e vocalità ipercinetiche non usuali»; la musica «passa da tecniche foniatriche sofisticate, riproduzione di canti etnici del mondo», e ancora «dallo studio dell’espressione sonora nel periodo prenatale, nel parto e nei primi anni di vita». Luci, suoni e coreografie riempiono e dinamizzano lo spazio scenico, dove gli unici oggetti sono rappresentati dal cadavere di Semele, carbonizzata da Zeus e da una collinetta (che simboleggia il monte Citerone) su cui si avvicendano i personaggi (tra gli altri, Paolo Bessegato nei panni di Cadmo e Paolo Lorimer che interpreta Tiresia).
Il sipario si chiude sul corpo di Penteo ridotto a brandelli insanguinati, tra le urla di disperazione della madre omicida che invano vorrebbe tornare indietro (intensissima è la scena della Kustermann che, a più riprese, nasconde e fa uscire da sotto le sue vesti la testa mozzata del figlio, provando a convincersi che non è lui).
Un finale che definitivamente recide ogni freno razionale dello spettatore che, accecato dal dramma – magistralmente reso da tutti gli attori – e dall’orgia dionisiaca, vede ormai dissolta ogni resistenza, e, ubriaco barcolla verso l’uscita, vuoto e libero. Un’opera catartica.
Elvira Sessa
Teatro Vascello
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