I “Giorni (poco) felici” di Andrea Renzi
Fino al 10 aprile, al Teatro India, Andrea Renzi dirige e interpreta con Nicoletta Braschi una (troppo) ossequiosa versione del celebre dramma di Beckett.
C’è, nella personalità testuale di Samuel Beckett, un’affascinante attenzione poetica sull’insensatezza del vivere, sull’incapacità del fare, sull’azione inglobata e soffocata dall’immobilità, dalla staticità prolungata, estremizzata nell’assurdità esistenziale e situazionale, che porta a una lenta scarnificazione (teatrale) della realtà. Con “Giorni felici”, una delle sue opere interpretativamente più complesse e criticamente più contestate, ci troviamo (noi e i due personaggi) dinnanzi a uno svuotamento esasperato della comunicazione tra individui, verso una progressiva e illogica paralisi di corpo e linguaggio.
Al Teatro India di Roma, è in scena (ultima replica, 10 aprile) l’approccio registico di Andrea Renzi, prodotto da Melampo e dallo Stabile di Torino, che, insieme a Nicoletta Braschi, propone un lavoro di fedele (molto) riproduzione della drammaturgia tradotta da Carlo Fruttero. Una vera e propria partitura colma di assai precise indicazioni riguardanti i più minimi movimenti, gesti, intonazioni, ma anche impostazioni espressive ed estetiche (compresa l’illuminazione violenta di Pasquale Mari).
Tutto è fissato in un’immagine scenica essenziale e paradossale (qui pensata da Lino Fiorito): Winnie/Braschi – bionda platino, instancabile parlantina, abito elegante, spalle nude, immancabile giro di perle – è conficcata fino alla vita in una collinetta terrosa con annesso parasole e borsa porta-oggetti personali d’uso comune. Willie/Renzi, marito poco meno che immobile, striscia dentro e fuori dal suo buco (nascosto da un paravento di lamiera bicolore: sopra azzurro “cielo sconfinato”, sotto rossa “pianura ininterrotta”) e relega a qualche sguardo e stanco borbottio l’ormai unica forma dialogica d’interazione matrimoniale. E se il secondo atto ha come sola differenza l’immersione fino al collo della donna, verso una totale inattività e, dunque, estenuante privazione di distrazioni, contrastata da una logorrea sempre più rampante, la condizione emotiva e narrativa di stallo si fa parallelamente sempre più infernale, tanto da ridurre i presenti a essere parola e silenzio, voce e pausa, ricerca (disperata) di risposta altrui per sopportare – in attesa degli assordanti campanelli che impongono e alternano sonno e veglia – la vita deserta che li costringe e li circonda.
Certo, il personaggio quasi sempre monologante di Winnie rappresenta un’ardua sfida recitativa (soprattutto nella difficile mimica facciale, fondamentale nel secondo atto) che la Braschi ben restituisce secondo, però, una richiesta registica che, votata a estremizzare il rigido attrito tra il chiacchiericcio borghese di futilità e l’opposta, degradata situazione fisica, rischia di rendere l’interpretazione stessa troppo “impostata”, riduttivamente fittizia nei toni di esagerata gioiosità costante.
Va considerata poi la mancanza di un margine di lettura creativa, di un accento personale, in favore di una pedissequa messinscena che costringe lo spettatore a una visione monotona e che faticosamente lascia trasparire quel senso usurante di attaccamento all’esistenza proveniente, per contrasto, da uno stato (indotto per auto-convincimento) di felicità proclamata, procrastinata. C’è una resistenza (anche alla tentazione liberatrice della rivoltella, sempre a portata di mano) quotidianamente rigenerata e condivisa, o scaricata, con tormentose frasi di circostanza, su un consorte drammaticamente incapace di reazione, di ribellione, di contatto (che la recitazione di Renzi non restituisce appieno), fino all’ultimo invano tentativo di arrampicarsi su per il monticello, verso Winnie e/o la pistola che, puntata su di lei, attende di porre fine all’ostinazione umana.
Nicole Jallin
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman – Roma
Contatti: 06 684 00 03 11/14 – www.teatrodiroma.net