PPP, dacci il nostro male quotidiano
Chiude la stagione dell’Argentina di Roma l’hommage di ricci/forte a Pasolini con una messinscena lucida e visionaria sul male odierno.
Si amalgamano pensieri e azioni, immagini e memorie letterarie; s’impastano consapevolezze odierne e intime brutture umane, in questo omaggio pasoliniano targato ricci/forte che chiude (con repliche dal 14 al 16 giugno) la stagione romana del Teatro Argentina. “PPP. Ultimo inventario prima di liquidazione”, prodotto dallo Stabile del Friuli Venezia Giulia insieme al Festival delle Colline Torinesi, è una teatralità irruente di fisicità, lingue, (meta)linguaggi e grammatiche che rende i lavori di Stefano Ricci e Gianni Forte magnetiche e carnali metamorfosi creative d’approccio alla contemporaneità, il cui violento snervare di anatomie caratterizzante il loro ormai decennale repertorio, s’incanala qui, nella drammaturgia del duo e nella regia di Ricci, in una veemente dimensione cerebrale, di pensiero, di riflessione, di responsabile presa di coscienza che sgorga in uno sbattere in faccia la condizione reale della nostra attualità.
Apparteniamo a un presente umano e culturale castrato (e mercificato) da un sistema d’omologazione, di conformismo, da una struttura industriale morbosa (e possibilmente celata) di convenienza in direzione di un futuro “medievale” che schiaccia la diversità sotto la sbrigativa etichetta di “trasgressore”, che stritola ambizioni di (eterni) aspiranti adulti spersonalizzati, che relega gli individui a recettori di una società non più “madre”, isterilita e inaridita da (vani, rinnovati) tagli, rinunce, sacrifici. È il rumore del vuoto. Il vuoto deserto che è questo Paese, quello intuito – anzi, già chiaramente udito – dal poeta corsaro e ora portato in scena in uno spettacolo che distende le radici da Petrolio ai Comizi, da Salò alle note di Mamma Roma, dalla cronaca ai romanzi, alle pellicole, alle sonorità, dentro le sensorialità pasoliniane: eredità, lascito patrimoniale, testimonianza poetica e civile, racchiuse su un palco/speco da sogno felliniano, la cui candida estetica concepita da Francesco Ghisu ricopre di bianco persino l’accumulo di copertoni, in prepotente contrasto con le variazioni cromatiche che s’inseguono sullo sfondo.
Habitat surreale per le ispiratissime Capucine Ferry, Emilie Flamant, Catarina Vieira, Anna Gualdo e Liliana Laera, ovvero cinque spietate, “abusate” e congiunte donne/personaggi/ninfe/proiezioni di femminilità anni Sessanta (costumi di Gianluca Falaschi) con fare meccanico e ammiccante, intrigante e fanciullesco: riflesso rovesciato di un solo “io” maschile che è un Giuseppe Sartori da elogiare. È portatore di una croce/ruota pesante come il masso di Sisifo, questo sfrontato errante viaggiatore in discesa negli strati del proprio sé che, come il Peer Gynt di Ibsen, si troverà pure (faustianamente) a tu per tu con un Fonditore di bottoni dalla voce diabolica. Ed è vicino, vicinissimo a noi questa identità mancata in cerca di testimonianze che smentiscano il suo essere simulacro sgombro, incapace e illuso. È figlio di un oggi piena di scarti, di copertoni rotolanti, trascinati, ricollocati, deposti come i brandelli di valori morali che ci trasciniamo dietro, distratti e incuranti carnefici di quell’urgente necessità di etica gridata dall’eretico profeta Pasolini nelle nostre orecchie rese sorde dal sorriso tirato e sbadato dell’opulenza.
Perché nel nostro tempo, alimentato da chiacchiericci, superficiali vizi e dosi massicce di condizionamento sociale, l’umanità pare vegetare rinsecchita sotto l’effetto di anestetici all’empatia, come un fantasma che si fa attraversare inerme da un male ribadito e banalizzato a colpi d’arma da fuoco. Perché nel nostro tempo, corpi, ruoli sociali e io dismessi crollano a terra schiacciati dalle tracce omicide di noi stessi, riversi in pozze di petrolio, mentre nel petto batte il nulla.
Nicole Jallin
Teatro Argentina
Largo di Torre Argentina, 52 – Roma
Contatti: 06 684 000 346 – www.teatrodiroma.net