Macbeth vs Pinocchio
In prima nazionale al Napoli Teatro Festival 2016, due spettacoli tratti da classici, diretti rispettivamente dal sudafricano Bailey e dal francese Pommerat, ma il cui esito in scena è profondamente differente.
Conferire una nuova veste a testi classici per eccellenza, che siano drammaturgici o letterari, è operazione sempre rischiosa, perché inevitabilmente comporta il confronto diretto con l’originale e con l’idea che ciascuno personalmente ha formulato, nel tempo, su di esso. E due sono le modalità con cui ci si può approcciare all’operazione: pedissequa e fedele lettura della trama e dei personaggi che la animano, oppure stravolgimento della stessa. Soluzioni in bilico tra l’una e l’altra opzione in genere sono destinate all’insuccesso.
Ciò premesso, nelle scorse due sere del Napoli Teatro Festival 2016 abbiamo avuto la possibilità di assistere di seguito a due messinscene in prima nazionale che senza dubbio possiamo far rientrare nella casistica di cui sopra: caso fortuito, col senno di poi l’occasione si è però rivelata propizia per consentirci di mettere a confronto due stili differenti di “adattamento” e “riscrittura” e – di conseguenza – la loro resa sul palcoscenico.
Parliamo di Macbeth del regista e drammaturgo sudamericano Brett Bailey (andato in scena il 24 e 25 giugno al Teatro Politeama) e di Pinocchio del francese Joël Pommerat (ospitato dal Teatro Mercadante dal 24 al 26 giugno). Entrambi, come gli stessi titoli lasciano intuire, attingono a pieni mani da due pilastri: l’omonima opera lirica di Giuseppe Verdi (a sua volta tratta dalla tragedia shakespeariana), e il libro di Carlo Collodi, tra i capisaldi della letteratura per ragazzi. Ma se con Bailey immediatamente veniamo catapultati dalla Scozia d’inizio Basso Medioevo, a Goma, città ad est della Repubblica Democratica del Congo, teatro di sanguinari conflitti etnici, e le vicende legate al generale Macbeth e alla sua fame di potere, diventano presto un pretesto per focalizzare in realtà l’attenzione sulla guerra civile che ha dilaniato l’Africa centrale a partire dal genocidio del Ruanda nel 1994, con Pommerat e il suo allestimento resta pressoché invariato l’impianto originale e nessuna evoluzione e ulteriore conoscenza si registra e innesta rispetto agli assunti pedagogici e metaforici di partenza.
Da qui il grande divario che si apre tra le due produzioni e il diverso valore che ciascuna assume: finalizzata ad aprire una finestra su un dramma avvertito ancora oggi come lontano e poco conosciuto al di fuori di quelle regioni, l’opera firmata da Bailey fonde insieme storia antica e recente, epoche e luoghi lontani, e ne traccia un disegno unico, comune, in cui è l’attenzione alla violenza, alla follia umana, allo sfruttamento, alla voglia di comando e alla solitudine a cui essa condanna, che resta invariata, diventando un monito universale di condanna. Sul palco – occupato al centro da un totem rivestito di lamiere, spazio scenico delle azioni compiute dai personaggi e di volta in volta vestito di elementi scenografici differenti, essenziali nella struttura ma al contempo funzionali a rappresentare le diverse ambientazioni – dieci eccezionali cantanti d’opera sudafricani – attori/rifugiati che il regista ha voluto espressamente venissero dalle terre martoriate del Congo per essere testimonianza credibile di quanto le loro parole avrebbe raccontato – e la No Borders Orchestra diretta da Premil Petrovic su arrangiamenti di Fabrizio Cassol, chiamati a ripercorrere e riprodurre le atmosfere cupe del dramma, mentre sullo sfondo, in contemporanea, video proiezioni che estraniavano dalla trama scritta dal Bardo, portavano lo spettatore, con efficace coinvolgimento emotivo, alle dolorose questioni africane, allo spregiudicato dominio coloniale, al depauperamento delle risorse locali per opera delle multinazionali, alle migliaia di morti innocenti. In un perfetto equilibrio di riuscita contaminazione, il cui unico neo è stato rappresentato dai sottotitoli, che molto hanno fatto perdere – per l’eccessiva sintesi – della ricca complessità del linguaggio adoperato
Di altro impatto, invece, l’esito del lavoro compiuto sulla storia del famoso, quanto impertinente e bugiardo burattino (interpretato da Myriam Assouline), la cui evoluzione da pezzo di legno a bambino in carne e ossa viene ripercorsa per intero, ripercorrendo tutte le tappe immaginate per lui dallo scrittore fiorentino e solo in parte lievemente rivisitate, affidando a un narratore esterno alle vicende (Hervé Blanc) il compito di introdurre e raccordare tra loro gli episodi (intervallati da frequenti bui) mentre si rivolge direttamente al pubblico.
Ma se nel primo lavoro esaminato, nuovo e non scontato appariva tutto ciò che accadeva dinanzi ai nostri occhi, sebbene familiari fossero i ruoli e le dinamiche, nel caso dello spettacolo del regista fondatore della compagnia Louis Brouillard, privo di mordente è apparso sin da subito il perché avremmo dovuto assistere ad una messinscena di cui eravamo in grado di anticipare ogni mossa senza paura di essere smentiti nel vederla effettivamente realizzata qualche minuto dopo. E ancora, il perché, oggi, avremmo ancora dovuto avvertire la necessità di ascoltare e vedere le avventure di Pinocchio, e il carico di interrogativi di cui si fa portavoce (Cos’è la verità? Si può diventare grandi restando liberi?) senza che si mettesse in piedi una macchina che esaltasse le luci, i colori, gli ambienti fantastici attraverso cui il piccolo ribelle si muove, né si optasse per una interpretazione nuova degli stessi, piuttosto preferendo una soluzione grigia, tra l’immaginifico (indubbiamente belli gli effetti sonori e quelli visivi) e il minimale, che sia dal punto di vista autoriale che registico, poche tracce lascia alla fine in chi osserva. Come una promessa di incanto non mantenuta. Come una bugia, appunto.
Ileana Bonadies
Napoli Teatro Festival
contatti: https://www.napoliteatrofestival.it/edizione-2016/