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Aristides Vargas dirige la creazione collettiva del gruppo boliviano Teatro de los Andes, in scena al Teatro Nuovo e poi in residenza a Santa Croce del Sannio per l’evento Dalle Ande agli Appennini, La pace – ieri, oggi e sempre.

Fonte foto Ufficio Stampa

Foto Salvatore Pastore

L’aspetto più interessante dei festival internazionali, come il Napoli Teatro Festival, è la possibilità di entrare in contatto con drammaturgie “altre”, racconti che esulino dagli schemi e dalle tematiche a cui si è abituati per condurre all’esplorazione delle differenze. E, a prima vista, nulla parrebbe più differente di Mar, spettacolo dello storico gruppo boliviano Teatro de los Andes, in scena il 29 e 30 giugno al Teatro Nuovo (via Montecalvario, 16). La differenza sta tutta nella mancanza di quel mare, differenza che si acuisce nell’incontro col pubblico napoletano per cui le onde a pochi passi da casa rappresentano una parte di quotidiano, una costante, una sicurezza. Come suggerisce il titolo, il mare è presenza-assenza durante tutta l’opera, realizzata dal collettivo per la regia dell’argentino Arístides Vargas. Assenza perché la Bolivia non ha una costa. L’ha persa durante la guerra del Pacifico col Cile nell’Ottocento e, da allora, mai più l’ha recuperata, con effetti stranianti sulla vita dei suoi abitanti.
I fratelli Juana, Miguel e Segundo (Alice Guimaraes, Lucas Achirico e Gonzalo Callejas) partono per esaudire il desiderio della madre morente: essere portata al mare, goderne degli splendori prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta. Il viaggio attraverso il deserto affrontato dai tre, che trasportano la donna su una porta-lettiga, si rivelerà fondamentale ricerca di quegli orizzonti più ampi di cui il mare è allegoria. Un mare sconosciuto, eppure sentito e sognato, che è il fulcro di tante piccole vicende, corollario del percorso dei fratelli, raccontate sulle note di musiche andine suonate dal vivo con strumenti tradizionali. Si tratta di miti e luoghi comuni boliviani a cui si deve un’alternanza di tono e di linguaggio che giova allo spettacolo – dal drammatico al comico, dallo spagnolo all’italiano – ma che non mette mai da parte la profondità del messaggio. In effetti, laddove il mito è convenzionalmente in grado di fornire un’interpretazione dell’inspiegabile, in Mar sembra riuscire a spiegare ciò che non c’è più: il mare scomparso, gli affetti perduti, l’identità nazionale vacillante.

Fonte foto  Ufficio stampa

Foto Salvatore Pastore

Nelle performance degli attori si avverte tutta la consapevolezza della responsabilità personale e civile che Mar porta con sé. Un compito non facile, gestito con coscienza del proprio bagaglio identitario, oltre che del corpo e dello spazio scenico. Quest’ultimo ha come elementi centrali la porta su cui giace la madre in fin di vita e il telone bianco mobile che rappresenta il mare. La prima è la soglia dell’inconscio, nonché la bacheca su cui affiggere il ricordo della donna morente: scomponibile, da fare letteralmente a pezzi per poter essere di nuovo uno; il secondo è il fluttuante simbolo delle onde, che si abbassano e si innalzano imprevedibili fino all’epilogo, tra i momenti di più alta potenza visiva.
Mar conquista con semplicità. E questo atto di fiducia tra attori e spettatori ha tanto più valore poiché vengono a mancare le motivazioni originali del testo boliviano e se ne aggiungono di nuove per il pubblico nostrano. Ed ecco che la perdita dell’elemento naturale si universalizza, diventa altro da sé e torna prepotente a rammentare ciò a cui si è detto figuratamente addio lungo il cammino. Se la sfida era far percepire ai napoletani la privazione dell’onnipresente mare, un ossimoro che suggerisce il vuoto interiore e il senso di smarrimento a partire da ciò che è costantemente sotto gli occhi, Mar l’ha vinta con bellezza disarmante.

Stefania Sarrubba

 

Napoli Teatro Festival
contatti: https://www.napoliteatrofestival.it/edizione-2016/

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