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L’emozionante riscrittura del dramma euripideo firmata dai registi russi Valery Fokin e Nikolay Roshchin raggela il pubblico assiepato nella cavea del teatro greco di Pausilypon, declinando sotto la lente dell’attualità le sciagure narrate dal drammaturgo ateniese.

Fonte foto Ufficio stampa

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ubi solitudinem faciunt, pacem appellant
“dove fanno il deserto, dicono che è la pace”
Tacito, Agricola, 30

La guerra, la vittoria, il furore hybristico del trionfatore – le cui pulsioni più basse e ferine diventano unica legge morale cui conformarsi -; il sangue, il grido disperato e rotto del vinto, la cui dignità viene calpestata con l’oltraggio al corpo e alla memoria e costringendolo alla follia di una normalità artefatta: con Le Troiane, nel 415 a.C., Euripide squadernò dinanzi agli Ateniesi il libro dei mali, che non conoscono fazione e non hanno patria, che si susseguono incomprensibili e casuali (infatti gli dei, “anche prima invocati, non udirono”  le legittime richieste iliache di giustizia) eppure così sempiterni e così irresolubilmente intrecciati all’essenza stessa dell’uomo da non lasciargli alcuna via di scampo dal dolore.
Un dolore che non insegna: non era bastato ad Eschilo, nei suoi Persiani – la più antica tragedia greca giuntaci -, far parlare l’ombra di Dario circa le empietà commesse dagli stessi abitanti d’Asia in fuga dalla Grecia, foriere di sciagura e lutto; e non bastarono le pagine e le storie dei secoli avvenire a mitigare il furor di vincitori e sconfitti, così scioccamente convinti di realizzare le “magnifiche sorti e progressive” canzonate anche da Leopardi ne La Ginestra.
Il rimaneggiamento tentato dai registi russi Valery Fokin e Nikolay Roshchin, prodotto dallo Stabile di Napoli in collaborazione con il Teatro Alexandrinsky di San Pietroburgo e ambientato, per il Napoli Teatro Festival Italia, nel monumentale complesso della villa romana di Publio Vedio Pollione, a Posillipo (dove è andato in scena il 2 e 3 luglio), può a buon diritto porsi dinanzi al dramma euripideo senza soffrire di complessi d’inferiorità: il senso della piéce mantiene intatta tutta la sua potenza e la sua ricchezza antiche, pur venendo rimodellato secondo un approccio contemporaneo. Le Troiane di oggi sono immerse nel mondo moderno: sono le schiave degli imperialismi, dei totalitarismi che non lasciano spazio alla dissidenza, dello stupido delirio di onnipotenza dei temporanei reggitori del mondo, obbligate ad esser felici per propaganda – non è forse vero che la storia la scrivono i vincitori? -, costrette a sorridere in telecamera, a far buon viso a cattivo gioco, a soggiacere agli impulsi dei loro stessi carnefici, a indossare la maschera spersonalizzante di una serena felicità imposta dall’alto.
Il loro messaggio, ancora inascoltato da più di due millenni, cambiatosi d’abito, continua a gridare al vento, controvento.

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L’altissima qualità di tale riscrittura non si esaurisce, però, nella sola perizia e acutezza dei registi, capaci di trarre dalla messinscena greca le costanti socio-relazionali, il succo di ἄτη che, nel caso in esame, prende forma in una situazione scenica che si può situare a cavallo tra Novecento e attualità; fiori all’occhiello sono rappresentati, da una parte, dalla scelta di servirsi appieno dell’area archeologica, all’interno della quale gli attori si muovono con padronanza tra cadaveri troiani avvolti in sacchi da pattume e mura romane, contribuendo a creare un filo di congiunzione tra l’antico e il moderno, mentre, dall’altra, dal finalmente ben ponderato uso della componente video, più che funzionale alla ricreazione di un mondo – e di una società – tutto apparente, televisivo, dominato dallo show,  il quale finisce per fagocitare ogni spazio di riflessione, di silenzio, di intima dignità con la musica, i colpi d’arma da fuoco e le grida cameratesche dei greci.
Tra le protagoniste, Ecuba e la sua sotterranea sofferenza, dissimulata sotto il velo di un’ebbrezza necessaria e di circostanza, è prodigiosamente inscenata da Angela Pagano, particolarmente pungente nel contrasto tra le parole di disperazione proferite e gli scoppi di nevrotica gioia rovesciati sul pubblico con effetto straniante. È l’ultimo baluardo della città, ma anche l’ultima depositaria di un messaggio di antica sapienza che riecheggia dalla notte dei tempi, di equilibrio e rispetto della vita, di obbedienza alle leggi del fato, al quale però, in ultimo, oppone un vano rifiuto: non può abbandonare Troia in fiamme; ne sarà condotta via con la forza, come roba d’altri, ormai, roba di Ulisse.

Fonte foto Ufficio stampa

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E poi Andromaca (una Giovanna Di Rauso magnetica, il cui iniziale silenzio è capace di passare per vette di lirico ricordo del marito fino a giungere a liberatori atti di violenza e di vendetta impazzita, a seguito dell’uccisione dell’amato figlio Astianatte), Cassandra (le cui vesti sono indossate da Autilia Ranieri, fulminante nei suoi sguardi e nei suoi vaticini, sinistra nelle grida di giubilo frammisto a lucida follia) ed Elena (una Federica Sandrini abilissima nel contemperare femminilità, arguzia e capacità sofistica di colei che fu causa dello scontro bellico) non fanno altro che contribuire alla grandiosità del quadro che già si dipinge dinanzi agli occhi degli spettatori.
I veri barbari sono i greci, loro le azioni meno degne dell’uomo, a loro spetta il compito di carnefici e assassini: Taltibio è il loro maître, uomo che trasuda violenza, di uno squadrismo acquisito con l’educazione – o maleducazione – ricevuta in ambito militare, con un animo tanto disposto al senso scenico quanto alle peggiori efferatezze, il cui feticismo per il potere impedisce il pensiero critico, la libertà d’animo e l’umana comprensione. Leandro Amato ne è interprete notevole, ben abile nel renderne i tic, le manie e i modi da cieco funzionario delle dittature, alle quali tutto va sacrificato, la vita stessa in primis, ma non senza un certo senso estetico e quasi pseudo-artistico.
Antonio Marfella è un Menelao solido, ben piantato, che appare forse leggibile in alcuni momenti, ma che, a ben vedere, deve risultare tale nell’economia dei personaggi in scena.
Orazio, nella sua Ars Poetica, ha con chiare parole insegnato che “è meglio porre in scena un canto dell’Iliade che proporre novità inesplorate, […] se non ti perdi nel cerchio banale del già noto”; la magia di Fokin e Roshchin è tutta qui: una storia grandiosa come canovaccio, un tema di fondo di spaventosa e di stringente attualità, quella dignità della sconfitta – e dello sconfitto – che troppo spesso viene dimenticata e a causa della cui inosservanza si riavvia il cerchio di lutti e disperazioni, il coraggio di immaginare delle vere nuove vesti e delle spettacolari novità sceniche che non soffochino la scena ma le siano anzi ancelle nel tramandare la bellezza dell’umanità.
È uno strano Euripide; ma è sempre lui, sotto la veste del tempo passato, a dirci di non dimenticare.

Antonio Stornaiuolo

Napoli Teatro Festival
contatti: https://www.napoliteatrofestival.it/edizione-2016

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