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In scena al teatro Sannazaro per il Napoli Teatro Festival lo spettacolo diretto da Daniele Salvo, ispirato al discusso scritto di Jean Genet.

Fonte foto Ufficio stampa

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Viviamo o no una costante lotta per restare in equilibrio su un filo immaginario e precario che si allunga davanti ai nostri occhi? Sgomberando il campo dal dubbio che si tratti di una frase presa in prestito da Marzullo, verrebbe da chiederselo, per logica, dopo aver assistito alla trasposizione teatrale de Il Funambolo di Jean Genet, andata in scena al teatro Sannazaro, dal 30 giugno al 2 luglio, nell’ambito del Napoli Teatro Festival. E cosa, oltretutto, si è disposti a fare pur di restare in piedi, senza cadere? Il numero di domande sollevate da questa specie di “trattato del baricentro” prevalgono nettamente sul numero di risposte che si riescano a trovare.
L’opera diretta da Daniele Salvo è un vero e proprio bignami del funambolismo, steso da Jean Genet dopo il 1956, anno in cui avvenne un incontro determinante per la sua vita. La vicenda è piuttosto nota agli appassionati, ma merita di essere riportata perché dello spettacolo ne è l’essenza: nel 1956 lo scrittore conobbe un ragazzo algerino, un giocoliere e acrobata da circo, col quale avviò una lunga relazione che lo portò a seguire Abdallah, così si chiamava, in giro per il mondo. Un peregrinare durante il quale Genet riuscì a persuadere il ragazzo a salire sulla corda del funambolo per cimentarsi nell’esercizio circense per eccellenza, quello che più di ogni altro isola l’atleta rispetto al pubblico. Lo scrittore francese si dimostrò in grado di plasmare Abdallah fino al punto di indurlo ad allenamenti dai tratti ossessivi e maniacali, nonostante i quali non gli riuscì comunque di raggiungere l’obiettivo del completamento dell’esercizio (una caduta mise fine alla sua carriera).

L’opera non svela segreti, ma costringe semmai lo spettatore a tornare a casa con un cumulo inatteso di quesiti da affrontare. Il rapporto tra Genet e il suo funambolo rispecchia fedelmente la degenerazione di una relazione. Il poeta circuisce il giovane ragazzo, riproducendo su di lui la sua stessa immagine, simulando il ruolo di spirito guida mentre è evidente, per chi assiste, che quanto Genet architetti non sia altro che il disegno della proiezione personale (tenuta nascosta negli intenti, dunque anche meschina) di uno slancio alla bellezza che dovrebbe trovare sfogo proprio nell’impresa fisica di Abdallah. Genet non educa il ragazzo, si serve di lui come uno strumento per raggiungere un obiettivo. La perversione che governa questo binomio si intuisce nelle ultime parole che rivolge ad Abdallah (Giuseppe Zeno sulla scena) quando è oramai chiaro come questi abbia fallito nell’impresa, qualcosa che somiglia a “Volevo accenderti, non istruirti”. Nell’approccio dello scrittore, interpretato da Andrea Giordana, non c’è intento pedagogico, emergono unicamente l’edonismo e l’egotismo. Questa relazione a senso unico finisce per restituire ad ognuno un lascito specifico e nel sottoscritto non ha potuto che alimentare il dubbio sull’onestà che governi i rapporti, nei quali il tema dell’equilibrio diventa a maggior ragione cruciale: posto che si tratti di una battaglia tra interessi, deve persistere un equilibrio, affinché l’interesse di nessuno dei due soggetti prevalga sull’altro.
Fonte foto Ufficio stampa

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Inutile poi fare mistero di un’altra suggestione, dai tratti più frivoli. La forza pervasiva del calcio non entra solo nella campagna promozionale del Napoli Teatro Festival, che da giorni premia con ingressi gratuiti agli spettacoli coloro che si dimostrino in grado di indovinare i risultati delle partite degli europei. Il gioco del pallone contamina anche la percezione degli spettacoli stessi, generando delle associazioni mentali apparentemente improbabili. Così il funambolo di Genet richiama inevitabilmente alla tensione del rigorista sul dischetto, che come l’equilibrista, forse, muore prima di impattare la palla, così che “colui che calcerà sarà morto, deciso a tutte le bellezze, capace di tutte”.

Le atmosfere circensi, dal fascino immortale e rafforzate dall’importante presenza di Melania Giglio, si impossessano fisicamente del teatro Sannazaro: la scena prende il posto della platea e trasforma, per una sera, la struttura in un grande tendone. Lascia qualche perplessità la “distribuzione” dei vari momenti nella messa in scena. Daniele Salvo sceglie di aprire e intervallare lo spettacolo con attimi di danza che, a dispetto di un giudizio tecnico impertinente sui danzatori Yari Molinari e Giovanni Scura, paiono alterare la continuità e l’incedere naturale del percorso drammaturgico. Molto suggestiva e non didascalica, al contrario, l’idea di posizionare dei funamboli sullo sfondo della scena, lì dove il teatro prevede il palco consueto.
Andrea Parré
Napoli Teatro Festival
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