“Prima della bomba”, o della nascita di un foreign fighter
Diretto da César Brie, il testo di Roberto Scarpetti, in scena all’India di Roma per Short Theatre, indaga la “passione” di un aspirante kamikaze italiano per l’integralismo islamico.
In prima assoluta, all’India, in programma allo Short Theatre capitolino, è di scena (fino all’11 settembre) un impulso d’indagine drammaturgica e registica – la prima firmata da Roberto Scarpetti, la seconda da César Brie – che s’inquadra in un’attualità scottante come il fondamentalismo islamico per sondare l’enigmatica, soggiogante forza attrattiva che conquista le menti di molti giovani europei.
Prima della bomba, prodotto dal Teatro di Roma, è un viaggio al contrario che ribalta il tempo e comincia dalla fine, l’istante precedente l’esplosione in metropolitana, l’attimo che sfiora il sacrificio fisico, per subito deviare giù, nell’umano, nella testa del giovane kamikaze Ibrahim (Umberto Terruso), un tempo ragazzo qualunque di nome Davide, dove si nasconde l’urgenza di angosce insopportabili, di disagi maturati, d’inquietudini irresistibili nelle quali s’insinuano l’assuefazione da propaganda, la dedizione fatale alla religione, la radicalizzazione.
La direzione di Brie raccoglie i cinque interpreti (da notare l’intesa recitativa di Terruso e Andrea Bettaglio, Catia Caramina, Massimiliano Donato, Marco Rizzo) nella geometria di un ampio tappeto-musallah sul quale agisce una semiotica concezione registica (sempre sorprendente) di ambiente, oggetti, costumi, che ne rivela l’incontro, il loro susseguirsi dialogante con la presenza umana, fatta di guida la coralità di gesti, parole, pensieri ora sussurrati ora intensamente ribaditi, ora tenui ora impetuosi, non esauribili.
Ci sono corpi e voci che s’insanguinano di polvere e silenzio; che s’inzuppano dei loro resti nascosti in uno zaino-ordigno innalzato sopra le teste (lassù, fisso e irraggiungibile come una divinità); che si nutrono di fanatica onnipotenza distruttiva a dosi di pratici consigli dinamitardi sempre disponibili su internet, e che poi s’incamminano nel passato di uno solo, Davide. C’è la vicinanza di madre e amici, sordi al suo rivoluzionario crollo personale, alla sua impossibilità di sentirsi partecipe (e complice) dell’Occidente capitalista e globalizzato, alla frattura insanabile e ineffabile con la propria “società madre” – e questa irrequietudine inaccessibile, in parte, lo avvicina al Julian del “Porcile” pasoliniano -; e c’è l’ascolto (fittizio) trovato nell’estraneo, nello sconosciuto, nel disgiunto, nell’Islam. Una sorta d’innamoramento estatico per il Verbo musulmano capace di offuscare buone e cattive intenzioni perpetuate da adepti sinistri, moderati neo-convertiti e ambigui predicatori.
Ma qui, in questo parallelismo tra dramma interiore e fattuale realtà esterna, pare avvertire che l’intenzione testuale di penetrare quell’intimo sentire, di scrutare quello squasso recondito (che conduce Davide a Ibrahim) permanga a una certa distanza di sicurezza. Tocchiamo le tappe di questa metamorfosi religiosa, tra passaggi rituali di preghiera, regole e canti di supplica, episodi luttuosi collettivi e individuali, e anche questioni strategiche e politiche d’interessi consumistici internazionali, mentre quel calarsi nella crisi privata, indicibile, inafferrabile, artefice di un’incapacità dello stare al mondo, sbiadisce nel procedere degli eventi quotidiani, tra recenti scontri con coetanei e famigliari, e antiche intese fraterne, fino ad adolescenziali, ignare e virtuali premonitrici mattanze alla Play Station.
Nicole Jallin
Teatro India
Lungotevere Vittorio Gassman – Roma
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