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A chiusura della rassegna romana, un percorso (non gerarchico né esaustivo) fra i lavori di Christiane Jatahy, Muta Imago e Amendola/Malorni, nella loro diversa concezione stilistica, impostazione estetica, esplorazione artistica della realtà.

"Polices!"

“Polices!”

Sul finire (il 18 settembre) di questa ricca, condensata, molto movimentata e frequentata XI edizione di Short Theatre, è doveroso spendere qualche parola in più del solito per alcuni lavori intercettati in queste due settimane di programmazione, che ha alternato proposte meno memorabili ad altre assai stimolanti per cuore, testa, stomaco. Sicuramente da citare Polices!, lavoro in prima assoluta a La Pelanda imputabile a Muta Imago, con testualità di Sonia Chiambretto, regia di Claudia Sorace e scrittura drammaturgica e sonora di Riccardo Fazi, e con calorosa e molto ben assestata interpretazione/reading di Monica Demuru. A lei, che s’inserisce tra un tavolo/leggio mobile e due lavagne/schermi per supporto foto-didascalico, il compito di essere risoluta rievocatrice di sevizie più o meno moderne operate dalla Polizia francese su ordine del prefetto Maurice Papon, reo di crimini contro l’umanità (prima per il rastrellamento di centinaia di ebrei, poi per l’efferata repressione nel ’61 della rivolta algerina a Parigi, con conseguente morte di circa duecento manifestanti).
Si tratta di un drammatico spaccato storico e analitico – inaugurato con serie di amari comunicati augurali della stessa Prefettura – che si articola in un processo (udienza) verbale/sonoro (in progressivo fermento) dove articolare una salda espressione da reportage-documentario di atti giudiziari, rapporti di Polizia, intercettazioni e registrazioni. E tra questi premere una partecipata immersione in frasi, suoni e rumori fisiologici e ambientali (tutti generati da Demru, incisi e riprodotti, sovrapposti in loop grazie a una costellazione di microfoni regolarmente impiegati) raccolti tra masse di manifestanti delle banlieue con gole corrose dai lacrimogeni e incitazioni “propagandistiche” degli agenti del CRS; tra cariche indiscriminate su folle di migranti, studenti, civili, e instabili urla (francesi) di gioventù calpestate, contuse, interrotte.
Ed è una violenza euforica che riesce a spalancarsi a noi in una placida, disarmante e persistente disumanità; che con volto e morale alienato dietro l’assetto antisommossa scavalca persino gli attuali banchi accademici (si legge in scambi mail datate 2008 tra la stessa Chiambretto e direzioni scolastiche), e chiude fuori dai caschi l’insofferenza delle nuove generazioni, schiaccia gli emarginati ai bordi delle periferie, zittisce il disagio sociale con spari altezza uomo, pestaggi ciechi e arresti insensati. Perché così si comporta (ancora) la società civile. Nel nome dell’Ordine, della Legge, della Giustizia e della Sicurezza. O del Potere.

"Nessuno può tenere Baby in un angolo"

“Nessuno può tenere Baby in un angolo”

Convince poco, invece, Nessuno può tenere Baby in un angolo di Simone Amendola e Valerio Malorni (anche interprete), anch’esso in prima assoluta a La Pelanda. Toni da thriller psicologico per un benzinaio accusato di femminicidio con decapitazione che lo costringerà a continue discolpe dinnanzi a investigatori accusatori e manipolatori, in un crescendo febbrile di angoscia corporea e vocale fino all’epilogo (anche prevedibile) di possibile responsabilità amorosa e omicida. Convince poco per estensione drammaturgica, che s’attorciglia sul ridondante, sul ripetitivo (di resoconti personali, di versioni dei fatti, di ipotesi e supposizioni), su divagazioni in dettagli secondari che appesantiscono e rallentano il procedere di uno spettacolo già provvisto di durata importante (oltre l’ora e mezza). Convince poco la regia di Amendola/Malorni, che scuote il protagonista fisicamente e mentalmente nella penombra della scena, e lo mantiene in uno stato semi perenne di gridata nevrosi logorroica, alternata a momenti più quieti di riflessione ansiosa. Scelte autoriali che obbligano lo stesso Malorni a una recitazione sopra le righe, a una eccessiva permanenza emotiva paranoica, a un inguaribile affanno più o meno crescente che lo accompagna nel racconto della propria scelta professionale (svelata da una ridimensionata sedia); poi nel confronto con un avvocato/fantoccio – cui si fatica a comprenderne l’utilità della presenza scenica -; poi ancora in comica, spagnoleggiante versione “Gatto con gli stivali”, per una nuova deposizione di dichiarazioni d’innocenza; e infine nella rivelazione allucinata di se stesso di violenze commesse e inconsciamente rimosse, in una conclusione narrativa protratta.

"Cut, frame and border"

“Cut, frame and border”

Di contro, resterà per parecchio tempo nelle vene, la sperimentazione “en direct” drammaturgica, registica e pedagogica di Christiane Jatahy in Cut, frame and border, visto all’India in prima nazionale. È un lavoro, un gran lavoro, anomalo, un laboratorio a sipario aperto, che rompe convenzioni, pareti e limiti teatrali, per fare proprio del teatro una rinnovata comunione attiva di attori e spettatori, congiunti nel dialogo di realtà, fantasie, sensazioni, memorie: per uno spettacolo che esiste, si rivela, si forma e si esaurisce nell’istante stesso in cui viene recitato, improvvisato.
Con l’impostazione (dichiarata) di workshop per attori, Jatahy lascia che i suoi sedici interpreti europei dell’École des Maîtres (vanno nominati Natalie Beder, Karim Belkacem, Clementine Colpin, Teresa Coutinho, Ines Dubuisson, Pauline Desmet, Arianna Di Stefano, Jenna Hasse, Vera Kolodzig, Laura Laboureur, Fortunato Leccese, Astrid Meloni, Maelle Poesy, Matteo Ramundo, Alix Riemer, Ana Vilela da Costa, João Villas-Boas) si esprimano, o meglio vivano, il qui ed ora scenico con il pubblico, senza distanze, senza filtri, senza preavvisi, senza confini.
A guidarli dentro e fuori il palco – con invasioni impulsive in foyer e spazi esterni dell’India, sorvegliabili con videocamere a circuito chiuso e schermi in sala -, tra sedie “etichettate” con input narrativi e un fondale/ardesia ricoperto di biografie scritte, c’è una partitura prestabilita, nascosta, quasi trasparente, eppur solida, e molto, molto ben congegnata. Uno scheletro drammaturgico che s’ispira alla struttura frammentata (in nove racconti) degli “Short Cuts” di Robert Altman, e che qui inserisce e conduce la voce, la presenza e l’esperienza di un personaggio dopo l’altro, di uno sull’altro, in un’unica storia trafitta da schegge di vite (appartenenti a tempi e latitudini diversi). Ognuno è testimone di un proprio lembo di quotidianità, di gioie e tormenti privati, di dimenticanze e ritrovamenti repentini. Attori e personaggi viaggiano paralleli, gli uni dentro gli altri, (ri)chiamati (con comandi codificati e trasmessi mezzo auricolare) in esercizi di stile creativi e recitativi confluenti in un comune racconto, pieno di parole, relazioni, azioni, ricordi, luoghi, ed esistenze cancellate al suono – gelido come un inatteso colpo al cuore – di Orlando, Columbine High School, Bologna, Bataclan, Promenade des Anglais… Bello, straniante, commovente.

Nicole Jallin

Short Theatre
contatti: http://www.shorttheatre.org/

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