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All’India di Roma, fino al 9 ottobre, Pierpaolo Sepe dirige “Crave”, il testo dell’autrice  inglese che scava quattro identità affamate d’affetto, di desiderio, di distruzione.

Foto Pepe Russo

Foto Pepe Russo

Immergersi nella scrittura di Sarah Kane, nella sua breve e rivoluzionaria produzione teatrale, significa farsi travolgere da un flusso violento, inarrestabile, poetico, estremo, allucinato, di sensazioni, angosce, intolleranze fisiche, psicologiche, emotive, eternamente passate e presenti. Significa imbattersi in un eccesso scenico e linguistico che è riflesso immediato di una presenza – quella della Kane, suicida nel ’99 a soli 28 anni – tormentata, disperata e inoculata nei suoi personaggi, così perdutamente assetati di desiderio e rovina, di incubi e riscatti, di rabbia e affetto.
Paladini irrequieti di un certo disagio esistenziale sono le quattro identità squassate, lacerate e moleste di “Crave” che ora, e fino al 9 ottobre, sulla scena dell’India, possiamo ritrovare nel lavoro diretto da Pierpaolo Sepe. A, B, C, M (sentitamente recitati da Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli): due giovani e due vecchi, con l’anziano morbosamente infatuato dell’adolescente maldisposta (ma non troppo), e la donna più matura che vuole un figlio da un ragazzotto in attesa d’amore e pronto a rinnegarla con umiliazione. Tutti costretti, per volontà registica, nella penombra di una madhouse isolata e desolata, con sbarre e indizi murari di celle sul fondo, e una recinzione di sicurezza a separare noi da loro (l’ambiente si deve a Francesco Ghisu, l’illuminazione molto contrastata a Cesare Accetta). Quattro singoli, egocentrici, tra loro (in)dipendenti, sono pensieri formati in bocca – ognuno parla per sé, ognuno vive per sé: nessuno sopravvive da solo -, pieni di bramosia di morte, di erotismo, di futuro, di patologia, di salvezza distruttiva, di corpi e parole convulsi, urlati, mozzati, sovrapposti e ricomposti (compresa l’accelerata lirica del commovente, lungo monologo di A), che la messinscena di Sepe congloba e cristallizza in immagini mentali, istintive, deformate: tangibili.
E se, da un lato, la scelta di mantenere schierati i quattro interpreti dinnanzi alla rete per dar sfogo alle voci trasmette anche una ripetuta staticità che limita la loro intima inquietudine permanente, dall’altro è invece attraente l’amalgama di scatti e crolli spasmodici, di carnefici rinascite e instabilità anatomiche e abbracci sfuggenti, colpevoli, che Sepe cattura e libera sul palco. Perché il teatro sia quel luogo di lotta e catarsi espressiva, di tensione e tenerezza, assenza e oppressione, di un disintegrarsi passionale (sociale e personale) delle vittime. Perché noi, al di qua delle maglie metalliche, osserviamo degli sconfitti ascoltando le loro eco di rassegnazione maturata, di ricerca e progressiva accettazione di una vita spogliata di senso, di apocalittica constatazione della caduta, della fine, della libertà. Mentre con le ultime forze ci si scaglia insaziabili contro i confini di ferro, col respiro in affanno e il cuore che danza senza battito.

Nicole Jallin

 

Teatro India
Lungotevere Gassmann, 1 – Roma
contatti: teatrodiroma.it

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