Bordello di mare con città
Al Bellini di Napoli per la prima volta in scena, dal 25 ottobre al 6 novembre, diretto da Carlo Cerciello, il testo di Enzo Moscato in ricordo dell’amico Ruccello, tra dolore, disagio e rabbia.
È ancora il ventre di Napoli lo spazio fisico e metaforico di incontro e confronto tra lo sguardo registico di Carlo Cerciello e la scrittura drammaturgica di Enzo Moscato.
Ma se con Scannasurice, il precedente lavoro intorno al quale le loro visioni si erano raffrontate sulla scena, eravamo scesi negli inferi della città inseguendo la figura androgina che li abitava – simbolo su tutti della ferita successiva al terremoto dell’80 e spartiacque inesorabile tra un “prima e un “dopo” che ha investito la quotidianità ma anche la storia identitaria di una città e delle sue genti – con Bordello di mare con città, prodotto da Elledieffe e Teatro Elicantropo, e al suo debutto assoluto al Teatro Bellini dove resterà in scena fino al 6 novembre, risaliamo in superficie fino a raggiungere un ex bordello non più tale dopo la legge Merlin del 1958 e, a distanza di trenta anni, addirittura luogo di miracoli e sacralità.
Ad averlo reso tale, Assunta (Fulvia Carotenuto), ritiratasi ad una vita di pentimento e castità dopo essere stata in passato prostituta, ed improvvisamente divenuta artefice di miracolose guarigioni da un male virale che sta distruggendo le esistenze di molti, seminando sconforto tra le stese donne che oltre a lei abitano la casa, tra cui l’algida Titina, a cui dà corpo l’eccezionale vis drammatica ed emozionale di Imma Villa.
La vicenda diviene un caso eclatante di cui inizia ad occuparsi anche la stampa, ed ecco allora arrivare nell’ex lupanare un giornalista intento a volerne sapere di più: è Moscato, lo stesso autore, a ricoprirne il ruolo, e da esterno provare a ricostruire i fatti, esattamente ripetendo in questo modo quello che ha già compiuto in fase di scrittura in veste di drammaturgo: raccontare da uno sguardo altro ciò a cui si assiste, da cui si è circondati, di cui si sente parlare, ponendosi in ascolto e ricavandone una propria verità. È così che veniamo dunque introdotti nella storia, attraverso le domande del giornalista/autore che impersona anche noi, in quel momento semplici astanti mossi dalla medesima curiosità di sapere, di vedere oltre quello che l’apparenza ci mostra, a cospetto di un realtà – che altro non è che la nostra stessa città martoriata – di cui si è abusato sempre ma di cui, oggi come ieri, non si smette mai di sognare il riscatto, la “resurrezione”.
Prima ancora però di entrare nel ginepraio di verità alterate, di ambiguità, di sacro e profano assieme, dal quale non restano indenne le storie di nessuno dei singoli personaggi che popolano il dramma, è la confessione bambina e vergine di Betti (Sefora Russo), la figlia di Titina, ad accoglierci sul bordo del precipizio lasciandoci intuire quanto di lì a poco accadrà a suo discapito per mano del Cardinale (Lello Serao). Sullo sfondo la stessa scenografia di Scannasurice (ad opera di Roberta Crea), da cui si intravedono soltanto, in penombra, le altre donne della storia (Cleò – Ivana Maione; Madamina – Cristina Donadio), a rappresentare quasi una grata che tiene separata l’innocenza, ancora per poco, di Betti, dal delirio collettivo che si consumerà fino al sopraggiungere della morte e che ha inizio con il tonfo fragoroso ed improvviso della scena che cade, che sconquassa – un’altra volta – come quel terremoto/escamotage drammaturgico a cui si è già fatto riferimento e a cui idealmente si collega l’attuale lavoro.
Scritto su commissione subito dopo la tragica scomparsa di Annibale Ruccello, avvenuta nel settembre del 1986, esso contiene tutto il dolore per la subita perdita di un amico e collega, ma al contempo – come afferma Cerciello – anche «tutto il furore iconoclasta di Moscato nei confronti della linearità drammaturgica»: da qui la sua composizione in due parti/atti contrapposte e nettamente separate, narrativa, la prima, de-lirica, la seconda, e da qui la scelta di regia di enfatizzare entrambe (a discapito di una durata complessiva più breve che forse avrebbe giovato), conferendo all’una dinamicità in contrapposizione al testo di impostazione classica, e all’altra una maggiore staticità dal punto di vista attoriale per lasciare alle parole – anche cantate – il compito di esternare l’inquietudine grottesca e la rabbia che attraversa i protagonisti. Prima fra tutte Titina, la cui compostezza e il cui portamento altero dell’inizio, sono ora piegati dalla sofferenza straziante per la morte della figlia, che – come ancora sottolinea Cerciello – «è Napoli, ma è anche Ruccello e la sua morte violenta è sì la morte dell’innocenza e del futuro, ma anche di un modo di scrivere e concepire il teatro». Non a caso, cambia la collocazione non più sulla scena, ma in proscenio, lateralmente, del giornalista/autore che da quanto ora accade sembra prendere, anche fisicamente, le distanze assumendo egli stesso la posizione di spettatore/testimone, in quello che potrebbe interpretarsi come un tentativo ultimo di salvarsi (dalla morte della città e da quella teatrale), lasciando che siano le immagini visionarie, i simbolismi, la musica (le composizioni originali sono di Paolo Coletta), la poesia, l’eresia permanente – nella definizione moscatiana – a parlare. E parlando a lasciare emergere il marcio e il ridicolo che dilaga (e che il Cardinale in brache con indosso il suo copricapo rosso segno di autorità ecclesiale non potrebbe meglio rappresentare), mentre drappi di sangue sgorgano dalla maschera per antonomasia di Partenope, ancora una volta in un simbolismo che af-ferisce la vita così come il teatro, mentre Ruccello nell’immagine eterna di un quadro che tutto sovrasta a mo’ di effige sacra, osserva.
Ileana Bonadies
Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14 – Napoli
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