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Isa Danieli e Manlio Santanelli, insieme, per omaggiare con “fiori di carta” il compianto amico Ruccello.

Foto Pepe Russo

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“… mi porto appesa al cuore un’assenza ed un dolce ricordo… ma la voglia di raccontare una storia bellissima e amara in una lingua straordinaria, quella si è forte e caparbia .La racconterò senza forzature così come la raccontammo allora con Annibale…”. Queste, le parole accorate che Isa Danieli pronunciava nel 2006, all’esordio del suo personale omaggio al giovane amico drammaturgo, Annibale Ruccello, nel mettere in scena, a vent’anni dalla morte, il suo Ferdinando, quel “fiore di carta”, dono prezioso, per lei confezionato. Ed è al Teatro Nuovo di Napoli (che lo ha ospitatao dal 26 al 30 ottobre), che, questa cerimonia del ricordo autentico, nel 2016, continua e si rinnova. Per il trentesimo anniversario di quel funesto 12 settembre 1986, per quella ferita mai rimarginata, qui, i fiori si moltiplicano. Sono Isa Danieli e il drammaturgo Manlio Santanelli a voler celebrare l’uomo di teatro Ruccello, con la loro Serata d’amore. E l’incipit: “Da Annibale, ci siamo separati con una virgola”, segna il carattere discreto di questa piéce scritta a quattro mani. Ogni sfumatura della drammaturgia ruccelliana, è incorniciata in una riscrittura lieve, dalla quale si percepisce la volontà degli autori di non affondare la penna con evidente e personale pregnanza. La stessa discrezione che caratterizza la virgola, semplice ma fondamentale segno di interpunzione. Segno che non si impone mai con forza, che non separa definitivamente, che non prevede capoversi né nessun “punto e a capo”, ma grazie al quale tutto può riannodarsi e rincontrarsi. Come ricordi e affinità elettive. Sull’assito del Nuovo, pare che la coppia Santanelli- Danieli abbia messo in atto un’operazione di “testocentrismo”, a dirla con Roubin, per cui la supremazia del testo e la sua evocazione sono il fine della rappresentazione stessa, in cui le parole del drammaturgo Ruccello e quelle di Serata d’amore, sono rese visibili e vive dall’intensa interpretazione dell’attrice. Con Manlio Santanelli, drammaturgo-regista, la regia diventa drammaturgia anch’essa: un lavoro composito eseguito sulle azioni e sulle vocalità della partitura attoriale. La dimensione del teatro di testo può essere intuita dai fogli volanti in proscenio, di giorni andati (e di uno in particolare) di un vecchio calendario ma anche di possibili parti di copioni, di inediti, di carte a cui gli scrittori affidano stralci di se stessi.

Foto Pepe Russo

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Nel percorso a ritroso intrapreso dagli Autori, la messinscena si apre con Ferdinando, in cui Ruccello, a differenza che negli altri testi, utilizza un “bel linguaggio”, con diversi artifici retorici e un lessico ricco e forbito. La scena si presenta semplice: tre interni, tre camere, tre spazi-rifugio. Protagonista assoluta la presenza scenica dell’immensa Isa Danieli che si proietta nei tre personaggi cardine delle opere prescelte: Week end e Jennifer, della “trilogia del quotidiano da camera”, e Ferdinando, che unisce alla forma di romanzo storico, uno studio profondo e articolato inerente a codici e registri linguistici. E nonostante questo lavoro si differenzi in molti aspetti dai precedenti, innanzitutto, in quanto rivolto alla metafora e non più alla mimesi di quelli iniziali, ben si delineano dei tratti distintivi comuni tra essi e ben riconoscibili. Le tre donne, Donna Clotilde, Ida e Jennifer, vivono in luoghi angusti e chiusi, quasi in delle riserve claustrofobiche e misteriose, come il monolocale del travestito, il soggiorno dell’insegnante di lingue e la camera da letto della baronessa di Lucanigro. Tutte, celebrano, ogni giorno, dei veri rituali laici: Jennifer, prepara, ogni sera, la tavola per cena, in attesa di un uomo che non arriverà mai; Ida, ogni fine settimana, si trasforma da professoressa in erotica femme fatale; la baronessa, si rinchiude nella sua stanza e recita il rosario e anche la parte della perenne ammalata. Il rituale è un tentativo, spesso comico-patetico, di recuperare la propria individualità precaria, consentendo di tener lontana l’angosciante realtà della propria vita. Le tre protagoniste, inoltre, sono connotate da un significante rilevante: Jennifer è un travestito, Ida è zoppa e Donna Clotilde è ammalata. La lingua svolge il ruolo di snodo attorno cui si condensa l’attività della tessitura testuale dell’autore stabiese. Il profilo di ogni personaggio è tracciato dal suo linguaggio e si delinea per comunicazione, muovendosi secondo un proprio ritmo linguistico. Essa contribuisce a dare unità, forza e profondità al messaggio drammaturgico.
Dialetto e italiano si mescolano incessantemente sulla scena dando vita ad un plurilinguismo che “incarna” l’intento comunicativo di Ruccello e di quello che l’attrice e il drammaturgo-regista vogliono portare in scena. Donna Clotilde, baronessa di Lucanigro, è una nobile decaduta, dialettofona per principi politici ma soprattutto per rivendicare la propria identità alta e le sue origini di rango. Il suo dialetto “lingua di viscere” è lingua della memoria negata, del rimosso, di una rabbia inespressa proveniente dall’alienazione dalle proprie radici antropologiche. Donna Clotilde esprime tutto il suo disprezzo per “l’ebbreca cagnata” , scagliandosi soprattutto contro la nuova lingua italiana: “…nun voglio sentì ‘o ttaliano dint’a sta casa….na lengua straniera…senza sapore…senza storia…Na lengua senza Ddio! La baronessa di fede borbonica, che rimpiange l’oralità perduta del dialetto Napoletano, rimane saldamente ancorata alla cultura di un tempo pronunciando proverbi e modi di dire in vernacolo arcaico e raccontando favole Basiliane, ricche di elementi conservativi che rimandano a tradizioni popolari condivise. Gli altri tre protagonisti dell’opera, Gesualda, Don Catello e Ferdinando, non sono presenti in scena. È la maestria attoriale della Danieli, a presentarceli con i suoi sguardi, con i suoi a parte, mediante la prossemica con cui interagisce con essi, a renderli visibili e riconoscibili nei loro contorni ben delineati. Gesualda, confidente-carceriera della nobile cugina, dall’animo freddo, linguisticamente caratterizzata dalla sua asprezza lessicale e sintattica di dialettalità provinciale; Don Catellino, prete ipocrita e ambiguo, si esprime oscillando dal latino ecclesiastico all’italiano letterario al dialetto “borghese”, facendo mostra della sua cultura per riscattarsi dalle sue dubbie origini (“Ha studiato assai pe’ se riscattà”). Il giovane Ferdinando-Filiberto, nipote-impostore avido e losco, modula il linguaggio in base alla persona a cui si rivolge: con un italiano manierato si mostra adulatore poetico con la cara “zia” Clotilde, poi maschio latino con Gesualda, facendo affiorare il dialetto e la sua vera natura, infine, spirituale e filiale ma fortemente torbido con Don Catellino. I dialoghi tra i personaggi che Isa Danieli rievoca, sono legati tra loro in triangolazioni segrete che appaiono energici e intrisi di sentimenti estremi: passione prorompente e percezione della dissoluzione. Il confine tra piacere e sofferenza, tra amore e morte, è annullato. Le sfumature espressive sono rese dalle tante esclamazioni, dalle ripetizioni insistenti, dagli imperativi consecutivi:
“Mariuolo! Mariuolo!… Tu m’he fatt ascì pazza!”
Nun so vecchia! So’g giovane!…………Stammo ‘mpastate ‘nzieme! Vaseme! Vaseme Ferdinà!..”

Foto Pepe Russo

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Anche per i quadri di Week-end e Le cinque rose di Jennifer, Manio Santanelli riserva particolare attenzione nel ben rappresentarle sia da un punto di vista antropologico che linguistico. Qui, la tensione tra primitivo e moderno e la suspence pinteriana dell’attesa sono colti appieno. La schizofrenia delle protagoniste, scisse tra eros e civiltà contemporanea, quindi tra registri linguistici differenti, tra dialetto e italiano, emerge soprattutto nei momenti di follia e di rabbia e si palesa, nel dialetto materico dell’oralità del cunto, ricco di elementi conservativi. La fiaba narrata nel testo, “La signora cu lu zampone”, diventa lo speculum di Ida:
E qua storia vole sentere Idarella mia?… Vole sentì la storia della signora cu lu zampone?… Ma po mangia Idarella?… Ce stava a Roccapetrosa na signora ricca…Ma ricca assai… E bella!…’A signora però teneva no piecco… Era zoppa!”.

Il grottesco contemporaneo non si attenua più nel riso collettivo bensì alienato; l’eros perde ogni accezione gioiosa e tutti i simboli sessuali disseminati nei drammi di Ruccello, dalla gatta Rusinella ne Le cinque rose di Jennifer, ai coltelli impugnati sia in quest’ultima che in Week-end, e il veleno in Ferdinando, rinviano ad un eros cupo e privo di speranza, violento e arcaico. Particolarmente interessanti si rivelano i segni di scena, che il regista Santanelli pone in primo piano, come emblemi peculiari delle scritture di Ruccello. Essi sono presenti fin da subito, nel primo cameo della messinscena Ferdinando: il candelabro con le tre candele in mano alla baronessa, rimandano ad Anna Cappelli, ultimo testo di Ruccello, scritto nel 1986, in cui una comune impiegata, per famelica passione, trasforma le ossa dell’amato in cera, dopo averne mangiato il corpo; le tre rose rosse poste sul tavolino della baronessa, le stesse che, ovviamente, diventeranno le cinque e tragiche rose sul tavolo da pranzo di Jennifer; il cellophane posto sul tavolo, che ricopre cibo comprato in contenitori di alluminio, surrogati di nutrimento, frammenti di vite ma anche di una lingua asettica, stratificata, che tradisce un’identità. Si intravede quel Ruccello che si sforza di rappresentare il “nuovo”, filtrato ed arricchito da un passato significativo, per poter intravedere un possibile futuro, ma nel quale invece, si riflette, troppo spesso, solo smarrimento e degrado dell’essere umano. La “lingua delle viscere” cara all’Autore e alla baronessa di Lucanigro, si contrappone alla cultura del sistema dominante che fa uso di una “lingua di testa”, “ di plastica”, l’italiano omologato e fasullo, ”afasica, spenta, appiattita e brutta”, tratto distintivo di quella cacofonia della metropoli partenopea degli anni ‘80. La lingua, simbolo di forte caratterizzazione per ogni persona, si fa portavoce del cambiamento politico e sociale in atto, presente in ogni epoca: in quella moderna che fa da sfondo a Week-end e a Le cinque rose di Jennifer e in quella post unitaria di Donna Clotilde.

Foto Pepe Russo

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A corredo della partitura drammaturgica, s’intersecano le musiche originali composte da Carlo de Nonno, mentre la voce amplificata della Danieli conduce in proscenio stralci di altre figure femminili: è il caso della madre-matrigna protagonista di Mal di denti, una delle parti del monologo Mamma, piccole tragedie minimali, che nel segno della superficialità di una società alla deriva, “società vuota, poco culturale ,invasa dai mass media e in una situazione de-evolutiva”, spinge sua figlia, incinta prematuramente, al suicidio con il suo estremo e misero cinismo.
Isa Danieli e Manlio Santanelli, esperti da sempre della pratica scenica vissuta con professionalità e rigore, con Serata d’amore, dunque, ecco mettere in scena un autentico slancio del cuore, restituendo con misurata tensione ed ecletticità attoriale, la forza, il senso narrativo e soprattutto la phonè della complessa drammaturgia di Annibale Ruccello, con il quale, per entrambi, sarebbe stato bello e prezioso condividere anni di idee, di scena, di vita.

Antonella Rossetti

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