Manlio Boutique

Unica replica al Tedacà di Torino per il reading in tournée mondiale dal 2007 ispirato all’opera di Dostoevskij e interpretato da Bruce Myers, che attualizza quesiti sulla Libertà e la sua incompatibilità con l’indole umana.

Foto Tristram Kenton

Foto Tristram Kenton

La semplicità, il sacrificio del non necessario, del superfluo, la morigeratezza della conduzione dei corpi, delle parole, dei movimenti più piccoli è seria stoccata autoriale, interpretativa che fa dei molti lavori di Peter Brook una permanenza sacrale nella coscienza di chi guarda. E qualcosa di sacro, di placido misticismo, c’è anche ne “Il Grande Inquisitore”, riportato in scena al Tedacà torinese, nell’adattamento di Marie-Hélène Estienne e interpretazione di Bruce Myers, che con Brook ha pluriennale collaborazione e ben rodata intesa artistica.
C’è qualcosa di sacro che pervade la scena nuda, scura, con solo un leggio rosso che si staglia su un circoscritto rialzato palco. Qualcosa d’insondabile definisce l’habitat sensoriale per questo capitolo de I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, per il dialogo/monologo dell’uomo di Chiesa con un Cristo né visibile né udibile, ma non assente. E si deve alla recitazione di Myers (in abito nero), sempre calibrata, di delicatezza greve, di pronuncia vocale (in inglese con sovratitoli in italiano), gestuale, posturale d’imponenza gentile e ipnotica, l’elevazione del novantenne Inquisitore a superbo – eppure dolcemente fragile, instabile – accusatore e rappresentante di un’umanità consapevole della propria disperata ricerca del divino, della Fede, della Libertà, dell’arbitrio: comunione e tormento universale. Umanità antica e attuale, immutata e immutabile.
Le parole quiete e maestose invadono lo spazio scenico tanto quanto l’ascolto silenzioso e immobile, del Figlio di Dio tornato nella Siviglia del quindicesimo secolo, all’epoca dei persecutori roghi eretici, a destare le menti, la morale, il perdono, la misericordia degli uomini. Egli è il “disturbatore” additato, condannato alle fiamme da una ragione radicata in un corpo anziano ma non stanco, solo (come ogni singola persona nella civiltà) ma non perduto, consapevole della propria punitiva attrazione alla menzogna, alla schiavitù dell’idolatria, all’inevitabile intolleranza di se stesso, ma non vinto, non sconfitto, non finito. Non ancora.
Brook imprime nell’unica concreta presenza una (im)perturbabile protervia umana, dedita al risanamento dell’azione cristiana, agendo in nome di Gesù nel surrogare il Credo, la fratellanza, il mistero con l’autorità, il potere terreno, la superstizione. Con il significante di una croce argentata fatta scivolare piano tra le dita che prende il posto del suo significato, quello dell’originario valore del sacrificio: ecco l’unica religione; ecco ciò a cui deve credere l’uomo. Perché l’uomo deve credere di essere libero, ma mai esserlo davvero: la libertà è solo svincolo d’istinti primordiali: di ribellione e violenza. E questi minano la vita stessa. Come la vita stessa, l’anatomia, il pensiero, e il cuore di quel magro, vecchio giudice ardono al bacio – che vibra con impercettibile e anche ironica malizia sulle labbra di Myers – di un Cristo che ne affida l’anima alla pietà, all’indulgenza, al peccato dell’eterno rogo interiore.

Nicole Jallin

Associazione Tedacà – bellARTE
Via Bellardi 116, Torino
contatti: 011.7727867 – info@tedaca.it – tedaca.it

Print Friendly

Manlio Boutique