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Un Edipo Re dark e distopico, e un Edipo a Colono surreale e minimal: il nuovo lavoro della Compagnia Mauri Sturno replica all’Astra di Torino la tragedia sofoclea per antitesi estetica, materiale, interpretativa.

Foto Manuela Giusto

Foto Manuela Giusto

Si rinnovano le contrapposizioni dell’uomo, la resistenza interna tra smania di conoscenza e tormento della ragione, tra azioni e passioni inconsapevoli ma colpevoli e conseguenti  sofferenze inique, nel mito di Edipo. Emblema di nesso causa-effetto di più o meno profonde declinazioni, Edipo, è responsabile inconscio della sua condanna e insieme vittima espiatrice di se stesso, ed è oggetto di nuovo approccio scenico della Compagnia Mauri Sturno che, al Teatro Astra di Torino (dove è stato in scena fino a domenica 20 per poi approdare a Milano dove è attulamente), ha riservato una doppia messinscena dell’Edipo Re più Edipo a Colono, con reciproche regie di Andrea Baracco e Glauco Mauri.
Due lavori che enunciano sin dal primo colpo d’occhio un’opposta impressione estetica, una antitetica accoglienza emotiva, cerebrale, interpretativa dei personaggi; una avversa intesa e restituzione dei moti di corpi e animi umani. Prevale dunque l’unicità delle singole parti all’unione complessiva delle stesse, sebbene i due testi sofoclei siano qui parti complementari di un unico progetto teatrale.
Lo scarto netto è innanzitutto visivo (scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta), con il  primo segmento sviscerato da Baracco in una Tebe che è “luogo” scuro post apocalittico, tra una ferrosa reggia-container (anche sfondo per video proiezioni) e una terra annerita dalla peste e dalla morte, che lascia cadaveri di progenie/bambolotti in una vasca/stagno (vera) battuta da pioggia (vera), e vivi altrettanto scuri, lividi dei propri peccati. Sorta d’anticamera infernale, qui stanno e s’agitano un coro riassunto in un unico uomo (Ivan Alovisio) che è prima severo rivelatore, poi schietto accusatore, infine osservatore arido d’empatia; una Giocasta (Elena Arvigo) la cui incredulità e speranza ingenua e vacillante sono causa di storte e seri crolli anatomici; un giovane Creonte (Roberto Manzi) sfacciato stratega in mise elegante; un nunzio (Giuliano Scarpinato) che descrive con cenni autoerotici il suicidio regale – a noi visibile nella curiosa immagine della moglie/madre in cammino discendente col collo stretto in tessuto infinito, mentre lo sposo/figlio guarda e si acceca -. E l’attrito si fa violento tra Tiresia (Mauri) che impone pronta immobilità fisica della verità e del destino e il re Edipo che trova in Sturno un concentrato di inquietudine e nevrosi motrice: entrambi erranti (perpetui) da se stessi, come, per gradi diversi, tutti gli altri, che rispondono, va detto, a un notevole sforzo attoriale.
Quel che perviene con un che di superfluo, in questa prima parte, è la scelta registica d’inserire oggetti – come la vasca centrale o la tripla discesa di un microfono per confronti diretti col popolo/spettatori – e gravitarne, quasi vincolarne, l’azione recitativa. Entrate e uscite dall’acqua, attraversamenti di passerella, o ripetuti aggiramenti, evidenziano più l’artificio utile per lo sguardo che non una vera necessità drammaturgica.

Foto Manuela Giusto

Foto Manuela Giusto

La Colono di Mauri più che luogo è “tempo” precedente l’estinzione: un ristoro apparente immerso in un bianco ambientale puro, astratto, con cubi a ricostruire il sito sacro alle Erinni su cui “troneggiano” i consanguinei edipici, e figure incappucciate come druidi anonimi quali vecchi ateniesi. In questo eden latteo c’è una staticità perturbata, una permanenza interrotta dagli eventi, dallo straniero migrante che lascia anche trasparire certe instabilità nostre attuali, e che più nulla ha a che fare con il turbinio esistenziale della prima Tebe: scopriamo un Teseo (Scarpinato) d’assicurata benevolenza; un Creonte (Mauro Mandolini) cocciuto nella sua presa d’ipocrisia; un Polinice (Alovisio) prima lamentoso figlio in cerca di pietà paterna, poi tronfio sprezzante della sorte per ripicca; e due figlie (Arvigo/Antigone e Laura Garofoli/Ismene) che assemblano nella pacatezza d’animo, servile fratellanza e devoto sacrificio a quel padre incestuoso, ma pur sempre padre anziano e cieco, che si fa solenne per presenza e voce molto resistente di Glauco Mauri: anche quando, avviatosi alla propria fine, prima di andare, si concede di spiare (a un passo dalle quinte), con estati fanciullesca, quel che nei secoli si narra sia rimasto di sé.

Nicole Jallin

Teatro Astra
via Rosolino Pilo 6, Torino
contatti: 011 5634352 – fondazionetpe.it

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