Muta Imago: «Indaghiamo il teatro con la purezza della parola» [INTERVISTA]
In occasione del debutto di “Bartleby”, secondo capitolo dei “Racconti americani”, al Brancaccino di Roma, con Riccardo Fazi, drammaturgo della compagnia fondata insieme a Claudia Sorace, scopriamo il teatro di Muta Imago.
É una delle contemporaneità teatrali più ispirate, intuitive, e proiettate alla contaminazione di linguaggi, narrazioni, percezioni, il duo Muta Imago, ovvero Claudia Sorace, regista, e Riccardo Fazi, drammaturgo e sound designer. Sempre affamati di nuove forme espressive, di nuove interazioni poetiche con il racconto dell’umano e coi suoi confini interni ed esterni, la compagnia nata nel 2006, e operante tra Roma e Bruxelles, è ora impegnata con i “Racconti americani”, che è una trilogia per suoni e immagini, priva di qualsiasi presenza fisica attoriale.
Tre storie per tre autori statunitensi proposte una per anno, a cominciare da Fare un fuoco di Jack London, con la lotta per sopravvivere al gelo dell’Alaska, tra minimi, banali gesti ormai impossibili e una progressiva rassegnazione alla solitudine. Segue Bartleby di Herman Melville, dove uno scrivano newyorkese antepone il cronico rigetto “avrei preferenza di no” a ogni obbligo professionale e sociale: innesco apatico e assorto di reazioni irrequiete in chi ascolta e si trova schiacciato dalla rinuncia alla comunicazione. Secondo capitolo, quest’ultimo, che ha debuttato (il 25, 26 e 27 novembre scorsi) al Brancaccino per la rassegna “Spazio del Racconto II” curata da Emanuela Rea, e che rivedremo (il 9 e 10 dicembre) alle Carrozzerie n.o.t con il testo d’apertura; il terzo è invece previsto per il 2017.
Due spettacoli raccolti in vere e proprie “soggettive psico-emotive” di sconquasso più o meno pacato d’intimità interiori e ambienti esterni; dentro un movimento incessante di impressioni, sensazioni, inquietudini filtrate da protagonisti impalpabili, interpretati e sovrapposti a sonorità e visioni, e poi consegnati alla libera ricezione del pubblico.
É, quello di Muta Imago, un teatro d’acuto sentire, vivo ed eclettico, che ora, partendo dalla loro ultima fatica, attraversiamo vis-à-vis con Riccardo Fazi.
“Racconti americani” porta con sé una certa anomalia di concezione, di messinscena, di idea stessa di teatro. Com’è nato il progetto?
«C’è in noi una piccola tradizione che è quella di affiancare a grandi produzioni piccoli progetti paralleli per scendere più in profondità in alcune questioni per noi importanti. L’anno scorso, durante il debutto al Romaeuropa Festival di Hyperion, romanzo epistolare sul conflitto tra l’uomo e la sua aspirazione alla bellezza, tra l’uomo e la realtà, s’era attivata in noi la volontà di proseguire l’indagine del contenzioso che l’uomo ha con ciò che gli sta intorno. E questo è maturato in due direzioni: da un lato con “Nachstens, mehr!”, ovvero “Presto, di più!”, laboratorio per danzatori e performers professionisti che da due anni si dedica al superamento di sé e dei propri limiti. Dall’altro, nei “Racconti americani” di tre autori statunitensi tra l’Ottocento e Novecento, grazie ai quali abbiamo affrontato con punto di vista più narrativo prima la dialettica uomo-natura, poi uomo-società, e infine l’uomo con se stesso, in quello che probabilmente sarà L’ospite ambizioso di Nathaniel Hawthorne. Tre opportunità per intraprendere non solo una collaborazione col musicista Lukas Wildpanner, ma anche per proseguire la ricerca sul suono come principale mezzo di comunicazione e narrazione, già cominciato con il radiodramma Antologia di S., e con la possibilità d’inserire in un contesto teatrale, dove c’è l’attesa di un corpo (dal) vivo, l’assenza di un fisico, la mancanza dell’attore: al suo posto, una perfezione di presenza d’immagine, di parola, di suono».
Perché perfetta?
«Perché registrata. Perché frutto di sovrapposizione di immagine, suoni e voce, e non potevamo ottenerla con nessuno di questi tre elementi dal vivo. La trilogia non è pensata per essere proposta dal vivo: e questo principio congenito ci ha di fatto rivelato come il teatro si porti con sé e mantenga una modalità di fruizione indipendentemente da quello che viene presentato. Credo che il teatro sia ormai uno degli ultimi luoghi fisici dove si possono sperimentare i linguaggi senza limiti, anche rischiando. Perché vale sempre la pena di rischiare per il teatro: è un luogo di ospitalità, di scoperta. É la sua bellezza».
Nei “Racconti” non ci sono interpreti. Si può fare teatro senza attore?
«Per la prima volta abbiamo escluso gli attori dalla scena: volevamo ricercare la dimensione pura e assoluta del racconto di una storia (che è poi la base del teatro) in una forma assolutamente narrativa che non fosse una messinscena tradizionale. Qui l’assenza c’è già in sede di lettura. Abbiamo intenzionalmente sottratto ogni interpretazione caratterizzata per restituire il testo nel modo più orizzontale possibile, senza imposizioni recitative, senza violenze di offerta: ognuno di noi, nell’istante dell’ascolto può inserire se stesso, la propria verità, senza demandarla a quel che sta sul palco, senza accettarla passivamente. Questo non significa che non ci siano scelte artistiche o impostazioni estetiche; non significa che ci sia una incontrollata anarchia di libertà. Piuttosto c’è la decisione di fissare nell’opera un luogo e un tempo entro i quali lasciare degli spazi di libertà, di riempimento personale».
Ma come si dirige un attore che non c’è?
«Si dirige nel processo di realizzazione del lavoro. I “Racconti” non sono frutto di montaggio ma di una performance live registrata senza editing. L’approccio quindi è assolutamente teatrale, con prove e correzioni, e prove e correzioni, fino al raggiungimento della forma voluta, consapevoli che non si potrà più intervenire dopo. La regia di Claudia Sorace s’innesta in questa dimensione. Poi, a livello di pratica azione lavorativa (tra drammaturgia sonora e voce di Fazi, direzione di Sorace, musiche di Wildpanner e immagini originali di Maria Elena Fusacchia, n.d.r), la divisione dei compiti è rigida, e l’interazione fondamentale. E sebbene questa sia una performance registrata, è comunque regolata in tempo reale nei volumi e nei rapporti tra tracce sonore e visive, il che non priva lo spettacolo dell’elemento insito nella natura del teatro che ne rende ogni replica unica e irripetibile. Perché a rendere il teatro unico ogni sera più che l’opera in sé è il rapporto con lo spettatore che ogni volta instaura: troppo spesso deleghiamo a ciò che accade sul palco la performatività al presente, e questo mette chi osserva in una dimensione passiva. In realtà, ogni sera, a teatro, siamo tutti testimoni e partecipanti insieme di una relazione con l’evento. E quella relazione è unica e irripetibile».
Che tipo di percorso è stato il vostro e quali sono i prossimi obiettivi?
«Dopo dieci anni di attività è necessario per noi osservare il nostro passato, capire quel che abbiamo fatto e dove stiamo andando; riconoscere quegli elementi che attraversano la nostra identità, e che si amalgamano con le prospettive rivelate di volta in volta, a seconda del tema che decidiamo di affrontare e delle persone con le quali decidiamo di collaborare. Non riusciamo a immaginare uno spettacolo prescindendo da chi gli darà vita, dal corpo che l’ha creato e che abita il suo spazio. Il nostro sforzo è continuare a investigare tutti gli elementi propri del teatro, esplorare la sua dimensione di spazio “altro”, quasi “sacro”, in grado di essere distinto e distante dalla realtà e dalla società. In questo momento, e in questo senso, siamo nel pieno della ricerca sulla parola: stiamo cioè proseguendo il lavoro sull’immagine che da sempre ci accompagna e fa parte delle nostre radici artistiche e stilistiche, partendo però, stavolta, dal testo. Sono anche due anni che ci occupiamo di lirica, e ora stiamo studiando due progetti nuovi, con incontri di tempi e di spazialità, di biografie private e Storia collettiva. Ma per ora vi lascio sulle spine».
Nicole Jallin