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All’Argot Studio e all’Orologio di Roma, “Le muse orfane” e “Il sentiero dei passi pericolosi”, due testi del drammaturgo canadese rivelatori di tragicità d’incontri e confessioni familiari.

Foto Manuela Giusto

Foto Manuela Giusto

C’è un doppio intervento scenico nelle sale romane dell’Argot e dell’Orologio sulla scrittura del canadese Michel Marc Bouchard, con rispettivamente Le muse orfane (in replica fino al 19 febbraio) e Il sentiero dei passi pericolosi (andato in scena fino a domenica 5), che restituiscono la durezza della parola fatalmente sfogata in contesti familiari, dopo anni di silenzio riparatore d’animi feriti, stremati da colpevoli scomparse genitoriali.
Nello spazio trasteverino, Paolo Zuccari dirige e co-interpreta, insieme ad Antonella Attili, Stefania Micheli e Elodie Treccani – che sono incessante energia e precisione espressiva -, in Le muse orfane, una famiglia anomala per carattere, indole e scelte di vita: tre sorelle e un fratello ora riuniti nella vecchia e sperduta casa di provincia. Un ritratto d’interno anni Sessanta (scene di Francesco Ghisu e costumi di Lucia Mariani), movimentato da personalità in resistenza reciproca e in convivenza forzata. La primogenita (Attili) con fare bigotto e rigoroso solo tra le mura domestiche, che si è trovata a far da “madre” oppressiva alla sorella più piccola (Treccani), trentasettenne, sempre a caccia di parole e significati per recuperare un (mostrato) ritardo cognitivo. Poi Martina (Micheli), soldato omosessuale emigrata altrove per seppellire sotto i chilometri il disfacimento dei congiunti; e infine l’unico maschio di casa (Zuccari), scrittore dichiarato, custode di un’immaginazione dalla bizzarria estrema, nonché preoccupante, per gli altri, indossatore ispirato degli abiti che vestiva la mamma  tempo fa, prima che li abbandonasse per inseguire un amore straniero.
Ne deriva un’incapacità di comprensione, di ascolto, di dialogo consanguineo; ne derivano fratture consolidate da accuse, reazioni frustrate, aggressioni verbali ansiose nate per la rabbia del distacco che Bouchard trascina in superficie con un cinismo ironico, con un umorismo disarmante e drammatico, e che la direzione di Zuccari rende ancora più eloquente. Come quel defluire di sincerità, di nervosismo, di pensiero così reale da palesarsi nel modo più “finto” possibile: nella mise en abyme teatrale con messinscena delle passate azioni materne, tra ruoli assegnati e battute rispettate. Un ricordo detonatore di unione, di ritrovata, inaccessibile concordia.

Foto Manuela Giusto

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Speculari dinamiche, dissidi, legami intollerabili e anelati, scuotono il rapporto parentale dei tre fratelli de Il sentiero dei passi pericolosi, che, all’Orologio, la torinese Compagnia Tedacà, nella traduzione di Francesca Moccagatta, immerge in un esterno boschivo e nebbioso: un non-luogo senza confini, una prigionie aperta per i tre uomini reduci da incidente automobilistico che ne ha interrotto il viaggio verso la cerimonia di matrimonio del minore. La regia di Simone Schinocca circonda il trio recitativo (molto in sintonia) Andrea Fazzari, Mauro Parrinello e Matteo Sintucci in un’assenza spaziale claustrofobica, minacciata da spasmi psicofisici veicolati da cromatismi luminosi e da non troppo consone irruzioni musicali techno.
Li osserviamo dar voce alle loro crisi recondite, dove ognuno sputa in faccia agli altri due il non detto cronico, quel che da troppo è rimasto taciuto per volontà o occasione. Perché si dica dell’annegamento di un vergognoso padre, del senso di colpa, del rancore e della mancanza; si dica del bisogno di affetto e della irreversibile separazione da un genitore patologicamente sbagliato: per una discesa nevrotica nell’intimità, e una tragica condanna della memoria (rievocata con gioco di “teatro nel teatro”).
Opposti e complementari sono Ambroise (Parrinello), mezzano gallerista e gay, snob ed elegante nella sofferenza amorosa per un compagno malato di AIDS e nell’attrazione incestuosa per il fratello più giovane e caratterialmente opposto Carl (Sintucci), prossimo alle nozze e alla ricercata di pacata serenità piccolo borghese; e Victor (Fazzari), il maggiore, prima misterioso taciturno, poi spigliato tentatore di riconciliazione familiare e artefice del destino comune. Si confrontano, si avvicinano e inevitabilmente si annientano. Si staccano da sé un pezzo alla volta, fino a non lasciare nulla. Nemmeno la nebbia. Nemmeno la vita. Allora, insieme finalmente, si può tornare, o forse rinascere, bambini.

Nicole Jallin

Teatro Argot Studio
via Natale del Grande, 27, Roma
contatti: 06 589 8111 – info@teatroargotstudio.com – www.teatroargotstudio.com

 

Teatro dell’Orologio
via dei Filippini, 17/a
contatti: 06 6875550 – biglietteria@teatroorologio.com – teatrodellorologio.com –

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