Mel Gibson e “La battaglia di Hacksaw Ridge” [CINEMA]
Il regista di Braveheart e La passione di Cristo, protagonista ai prossimi Oscar con sei candidature per il suo lungometraggio dedicato alla vera storia del primo obiettore di coscienza che vinse la medaglia d’onore del Congresso.
“La fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere” (Søren Kierkegaard).
Nella produzione cinematografica contemporanea, probabilmente Mel Gibson è uno di quei registi che, più di altri, si ascrive a pieno titolo nell’albo di coloro che si sono catapultati in un metaforico ma anche pratico atto di fede totale, portato alla sua massima espressione con il susseguirsi di opere spesso discusse per le loro controversie. Il figliol prodigo ‘Mad Mel’, cresciuto come un principino e poi per un periodo cautamente allontanato da quella stessa Accademy che lo aveva prepotentemente lanciato (premio Oscar nel 1996 come Miglior film e Miglior regia per Braveheart, ma poi totalmente ignorato per lo stravagante Apocalypto), neanche stavolta con il suo La battaglia di Hacksaw Ridge, (6 nomination ai prossimi Oscar 2017, tra cui Miglior film, regia e attore protagonista, e in Italia già nelle sale da giovedì 2 febbraio) si sottrae a quella dicotomica e vulcanica presenza di ‘sacro e profano’ che tanto ha caratterizzato i suoi ultimi film.
La battaglia di Hacksaw Bridge racconta la storia (vera) del giovane soldato e medico Desmond Doss (interpretato da Andrew Garfield, conosciuto dal grande pubblico per il ruolo di Peter Parker in The Amazing Spiderman di Marc Webb, e recentemente tra i protagonisti del favoloso Silence di Martin Scorsese). Cristiano avventista e obiettore di coscienza, il ragazzo, arruolatosi durante la Seconda Guerra Mondiale, prende parte alla battaglia di Okinawa ma si rifiuta di uccidere i nemici diventando un soccorritore militare, salvando ‘armato di sola fede’ la bellezza di 75 uomini e diventando il primo disertore che la storia americana abbia conosciuto e riconosciuto con la Medaglia d’Onore del Congresso.
La storia di Doss, già oggetto del documentario The Conscientious Objector di Terry Benedict del 2004, di cui alcuni frammenti sono prontamente riproposti alla fine di La battaglia di Hacksaw Bridge, presenta a Mel Gibson il terreno fertile e l’occasione perfetta per praticare il suo cinema solenne e provocatorio, anche in ciò che non per forza provoca. Lo fa, come al suo solito, non scegliendo una qualsiasi storia di tutti giorni, ma con un soggetto che non può che impressionare il grande pubblico.
Nella realizzazione di quello che potremmo definire un personale melodramma, senza dare a tale definizione un’accezione necessariamente negativa, Gibson non dimostra il minimo timore nel divertirsi sin dall’inizio nell’utilizzo di alcuni tabù tecnico-narrativi dell’arte cinematografica: ralenti ricorrenti, voce off, miriadi di frasi a effetto, musica imponente, citazioni bibliche e, ebbene sì, sguardi in macchina da presa, con cui il regista intende (forse) investire lo spettatore di un ruolo da Giudice Super Partes. La prima ora (di circa due e dieci totali) del film, che comincia dagli albori dell’infanzia (come anche era stato per Braveheart), e che passa per una classicissima storia d’amore tra il soldato Desmond e l’infermiera Dorothy (interpretata da Teresa Palmer), oltre che per un addestramento di kubrickiana memoria (in cui da annoverare resta la performance di Vince Vaughn), è solo un lungo preludio alla spregiudicata crudezza che si manifesterà meglio successivamente.
La seconda parte, infatti, è decisamente più improntata sull’elemento estetico, mostrando immagini di rara potenza visiva ove vi è una ricerca famelica dell’effetto spettacolare, avvalorandosi soprattutto della splendida fotografia di Simon Duggan (a tal proposito si consiglia vivamente la scelta di una sala adeguata al prestigio visivo di questa opera) e grazie ad un montaggio disinibito, fatto di schegge di parossistica violenza, tra primissimi piani e soggettive, sangue, esplosioni, corpi in fiamme che volano e una maestosità fuori dall’ordinario. Al di là della figura quasi evangelico-nazionalista che Gibson costruisce sul suo protagonista Doss – figliol prodigo buono ma diverso, solo contro tutti ma accompagnato da una grande fede e dal passato intriso dai miasmi di una violenza istintiva e subita da un padre alcolizzato (il bravissimo Hugh Weaving) -, il film deve far fronte a dei limiti evidenti. Prima di tutto storici: i giapponesi, che ogni tanto vediamo qua e là, ci vengono presentati come i cattivi vigliacchi che il protagonista non esita a salvare nella sua magnanimità, nulla di più. Oltre a questo, c’è poi da dire che il war-movie è un genere in cui è impossibile non confrontarsi con il passato e, senza scomodare la miriade di classici a cui questo film guarda con ‘sano mestiere’, in presenza di un codice così ricercatamente intenso e poetico, è inevitabile pensare e citare un’opera sola: La sottile linea rossa di Terrence Malick, uno dei film più belli e riusciti degli ultimi anni di questo filone. Si noti come la differenza sia netta e come Gibson, pur avvalorandosi di prove attoriali di ottimo livello, nella sua bravura e in quella che qualcuno ha giustamente definito come una totale dichiarazione d’amore e di fede nel cinema, non dia un contributo significativamente personale al genere, tentando maldestramente di aspirare ad un’epica a tratti artificiosa, che non tocca mai le corde più profonde del lirismo a cui il suo racconto tenta di arrivare. Al contempo, ne si può cogliere e riconoscere uno stile forte e coerente: che lo si ami o lo si odi il suo cinema è questo, del resto, e ciò è motivo di grande lode. Tuttavia amare qualcosa profondamente non vuol dire necessariamente essere parte integrante di essa.
Luca Taiuti