Se Giulio Cesare è donna
In scena al Teatro Mercadante di Napoli fino al 19 febbraio, l’adattamento di Alex Rigola della tragedia scespiriana, viaggio nelle contraddizioni del potere.
Se è vero che, usando Calvino, in tanto il classico può dirsi tale in quanto capace di aggiungere sempre qualcosa alle cose già dette, è vero pure che esistono, nella storia del teatro e della letteratura in generale, classici “più classici” di altri, in grado di mutar forma ed adattare spirito e significato al mutato sentire dei nuovi tempi. Di questa (per la verità, non nutrita) categoria di opere il Giulio Cesare di Shakespeare fa parte a pieno, come tenta di dimostrare Àlex Rigola con l’adattamento in scena, fino al 19 febbraio, al Teatro Mercadante di Napoli. Il regista catalano, direttore della Biennale di Venezia negli ultimi anni, si cimenta con il testo per la seconda volta, dopo aver già dedicato allo stesso uno spettacolo in lingua madre; la traduzione in italiano è affidata, per l’occasione, a Sergio Perosa.
Sperando di non sollevare nel lettore alcuna indignazione da spoiler, diciamo subito che il personaggio eponimo morirà dopo nemmeno metà dello spettacolo, e la sua violenta dipartita sarà sottratta alla visione dello spettatore, sostituita da frammenti di sequenze splatter proiettate sul parallelepipedo che fa da sfondo alla scena. Giulio Cesare non è, infatti, la storia del più importante uomo politico della storia antica; bensì il racconto delle ragioni della sua uccisione e delle conseguenze su chi la perpetrò. In due atti (in luogo dei canonici cinque dell’originale), Rigola prova a disegnare un ideale collegamento tra il dramma scespiriano e la situazione politica e storica attuale, spingendo su paralleli non sempre riusciti e non chiarendo i punti di una denuncia politica che fatica a farsi incisiva. Aylan, il bambino curdo lasciato esanime sulla spiaggia di Bodrum e diventato simbolo del terrore delle migrazioni di questi ultimi due anni, è citato all’inizio e alla fine dello spettacolo, come monito verso le responsabilità di una politica che perde di vista l’umano nel suo eterno svilupparsi come rincorsa verso il potere. Questo è, infine, il complottare di Casca, Cinna, Cassio e Bruto; questo il tramare di Marco Antonio e Ottaviano, una volta ammazzato il mentore: una lotta che ha vincitori quasi casuali ma che nel frattempo lascia a terra sangue e terrore: Cesare, nelle sembianze inaspettate di Maria Grazia Mandruzzato, resta lì sullo sfondo, a guardarci e ricordarci il peso delle sue scelte e di quelle di chi l’ha ucciso.
Il potere per il potere risucchia ogni brandello di umanità e smaschera plasticamente l’homo homini lupus raffigurato dai travestimenti (appunto, da lupo) con cui i personaggi si presentano in scena. Se però questo aspetto dell’opera appare giustamente ragionato e funzionale al messaggio che si era intesi trasmettere, altro pare invece più campato in aria: in che modo l’uccisione di Bin Laden per opera delle forze armate guidate da Obama (citato all’inizio nelle proiezioni che precedono l’entrata degli attori) avrebbe avuto un ruolo nella successiva crisi dei migranti, e in che modo questo potrebbe trovare una chiave di lettura plausibile all’interno del testo portato in scena? Sono punti non chiariti, lasciati allo spettatore come tracce di un tema da svolgere in proprio.
Visivamente, lo spettacolo funziona molto bene: merito soprattutto delle luci di Carlos Marquerie e dei costumi di Silvia Delagneau, e in generale buona appare la prova attoriale del nutrito cast (oltre alla citata Mandruzzato, si segnalano Michele Riondino, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Silvia Costa e Margherita Mannino). La regia di Rigola chiama in causa lo spettatore, lo coinvolge e talvolta quasi lo accusa: gli attori rivolgono il proprio corpo praticamente sempre verso il pubblico e mai l’uno verso l’altro, tanto da ricreare l’effetto di un incastro di monologhi, accentuato nel secondo atto con la predisposizione di tante aste e tanti microfoni sul bordo del palcoscenico. Coraggiosa la scelta di affidare ad una donna il ruolo di Cesare, anche se finisce per essere una trovata un po’ fine a se stessa, non trovando una piena spiegazione nel prosieguo della recita.
Luci ed ombre, dunque, di uno spettacolo che piace senza convincere fino in fondo, sospeso in un’ansia di “denuncia politica” che tradisce le buone intenzioni ma svilisce, al contempo, la buona rappresentazione del dramma del Bardo. Insomma, tornando al principio: va bene lasciar dire al classico quanto ha ancora da dire, ma guai a estorcergli profezie e sentenze.
Antonio Indolfi
Teatro Mercadante
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