“Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan [CINEMA]
Candidato a sei premi Oscar tra cui miglior film, regia e interpreti, la nuova opera del regista statunitense è un pungente dramma anticonvenzionale.
Dolori, intimi sensi di colpa, fragilità dei rapporti umani, inadeguatezze, perdite e lutti familiari, ossessivi intrecci tra presente e passato, voli a cielo aperto e sibaritiche cadute su quel duro umido asfalto che è la vita. A questi e altri temi ci aveva già introdotto, nelle opere che aveva diretto, Kenneth Lonergan, scrittore di teatro e sceneggiatore di successo (tra i suoi titoli spicca Gangs of New York di Martin Scorsese). Se tra il primo gradevole esordio Conta su di me e il secondo promettente Margaret (con una memorabile performance di Anna Paquin) erano passati poco più di dieci anni, stavolta Lonergan dimezza le tempistiche e, a cinque anni dalla sua ultima direzione, torna dietro la macchina da presa per proporci il suo affinato sguardo cinematografico. Non sappiamo quanto sia stata voluta l’attesa, ma se il trascorrere del tempo e la maturità non sempre sono sinonimi scontati, e pochi la praticano davvero, l’esponenziale crescita artistica di Lonergan appare evidente.
Manchester by the sea è la storia di Lee Chandler, figlio minore di una famiglia della classe operaia di un villaggio di pescatori del Massacussetts che, alla perdita del fratello maggiore Joe è costretto a tornare nella nativa Manchester (quella statunitense), ed eredita la tutela del nipote Patrick, un adolescente nel pieno del suo fervore. Entrambi, con grandi difficoltà, cercano di adattarsi l’uno all’altro, in uno scontro generazionale che pone nell’amore e nel sacrificio familiare le radici della parabola emotiva di Lee.
Ciò che spicca dall’inizio di quest’opera è, senza dubbi, l’immensità dei luoghi del New Hampshire, di rara fredda bellezza, evidenziata dalle favolose immagini virate per lo più sul grigio dalla fotografia di Jody Lee Lipes, e un’intelligente regia che non intende perdersi nulla dei suoi personaggi ma che, anzi, intende valorizzarne il carisma e punta tutto sul valore drammaturgico che rappresentano, soprattutto nel caso del protagonista Lee. Ed è appunto nel suo principale personaggio che Lonergan scommette, avvalendosi della pregevole recitazione di Casey Affleck, per alcuni sottovalutato rispetto al celebre fratello Ben, non per altri che riescono a coglierne la bravura e a considerarlo come tra i pochi capaci di interpretare personaggi ossessionati, uomini fragili in costante ricerca di un senso interiore (in tal senso come non citare la sua interpretazione in L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford di Andrew Dominik). Casey Affleck ha una caratteristica unica nel suo genere: è magistrale nei piani d’ascolto, brilla molto quando non parla, in senso buono, perché sottrae, portando alla massima potenza la performance attoriale cinematografica, in silenzi che suonano come monologhi interiori. Gli stessi che Manchester by the sea propone avvalendosi di un’eccelsa cura delle immagini, spesso fisse, che ci restituiscono in pieno il senso d’isolamento nei lunghi viaggi in macchina di Lee, o nelle scie che imprime nelle fredde acque del New England il peschereccio del fratello Joe.
La prima ora di film, dai ritmi molto sommessi, tra spasmodici flashback e silenziose ossessioni, trova nella morbidezza del montaggio e in una lentezza da cinema indie una necessità e un pregio, e rispecchia perfettamente il peso interiore di un’esistenza nichilista, trascinata nella lancinante indifferenza autodistruttiva di Lee, non dando alla narrazione mai fretta, riportandoci alla mente qualcosa dell’immenso cinema di Alexander Payne (che pure tratta temi simili nei suoi Nebraska e A proposito di Schmidt); essa risulta decisamente più intimista rispetto a una seconda parte in cui il racconto e la dinamica interna accelerano vertiginosamente, concedendosi ai vortici della svolta narrativa, dove a pagarne il caro prezzo è proprio quel senso di solitudine su cui il film precedentemente costruisce tutta la sua forza.
Lo spartiacque del film è, paradossalmente, la parte in cui esso cerca di raggiungere il massimo livello di pathos: il momento in cui si racconta l’evento più tragico della vita di Lee, accompagnato e sottolineato dall’Adagio di Albinoni, nell’uso della lirica come volo pindarico in cui si cimentano spesso in tanti, tra cui anche molti esponenti del nuovo cinema underground americano, talvolta riuscendo in buon esiti (si vedano, solo per citarne due, Two Lovers e Little Odessa di James Gray a cui più o meno questo film guarda). Componente che qui invece, come accennato, si rivela essere l’arma a doppio taglio della regia, il punto dove, guardando più in alto del dovuto, si sottrae qualcosa al lirismo con didascalica ingenuità, lacerandone la dolcezza e l’ossessione costruite a fatica.
Da questo momento in poi, è un vero peccato dover parlare di un leggero calo, che macchia ma che non condanna tuttavia un’opera interessante nella sua complessità. Se quei luoghi dell’America nordorientale potessero parlare, verrebbero sicuramente in aiuto più di quanto già non facciano nella loro potenza; a supportare invece con la parola la forte regia (Lonergan è candidato ai prossimi Oscar 2017 sia per la miglior regia che per la miglior sceneggiatura originale, oltre che Manchester by the sea come miglior film) è comunque un cast composto da ottimi attori, non a caso nelle candidature ai prossimi Oscar ci sono il già citato ed egregio Casey Affleck (candidato miglior attore protagonista), il talentuoso Lucas Hedges (candidato miglior attore non protagonista) nei panni di Patrick, che avevamo già apprezzato in Moonrise Kingdom (di Wes Anderson, 2012, ndr) e The Zero Theorem (di Terry Gilliam, 2013, ndr).
Oltre alle presenze maschili, una nota a parte merita la delicata e intensa Michelle Williams (candidata miglior attrice non protagonista), eccellente nei panni di Rendy, l’ex moglie che a un certo punto del film Lee incontra, in una scena toccante, breve ma intensa che ricorda molto l’interpretazione della Williams in Blue Valentine (di Derek Cianfrance, 2010, ndr).
Insomma tra molti alti, e nonostante i pochi bassi, Manchester by the sea è un senza dubbi un film pungente, che non si piega mai ai canoni tradizionali del dramma, ma che con intelligenza prova a spingersi oltre le barriere della convenzione, e pratica un cinema raro, che riesce a essere stupefacente, malinconico e sincero.
Luca Taiuti