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Candidato a 8 premi Oscar, il secondo lungometraggio di Barry Jenkins è una promettente opera sull’integrazione razziale e sessuale di un ragazzino gay, dotata di grande emotività.

Moonlight di Barry Jenkins

La locandina

Se al suo esordio Barry Jenkins era stato individuato da alcuni come regista di grande talento su cui puntare forte, non se l’è lasciato scappare, seppur dopo un po’ di tempo da quella sua prima interessante regia (Medicine for melancholy, 2008, ndr), il buon Brad Pitt, che con la sua casa di produzione Plan B continua il progetto che ha intrapreso sul racconto delle vicende che affliggono il popolo afroamericano, progetto iniziato con l’importante 12 Anni schiavo di Steve McQueen. Volerebbe in apparenza molto più basso Moonlight, in virtù di un budget che non supera i 5 milioni di dollari (una nullità a Hollywood), ma di fatti il film, anche grazie ad un enorme successo di critica, si è  guadagnato la bellezza di 8 candidature ai prossimi premi Oscar 2017 (Miglior film, regia, attore non protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura non originale, fotografia, colonna sonora), presentandosi prepotentemente come una delle opere di maggior rilievo.
Sullo sfondo di Liberty City (la periferia di Miami), Moonlight narra la storia tripartita di Chiron, afroamericano cresciuto in difficili condizioni familiari. I tre capitoli della vicenda equivalgono a tre fasi di vita dello stesso protagonista: nella prima, Chiron (interpretato dall’esordiente Alex R. Hibbert) ha 10 anni e viene soprannominato Little, vive con una madre assente, prostituta tossico-dipendente, e vive tra violenza, emarginazione e degrado, subendo frequenti atti di bullismo da parte di alcuni compagni di scuola. Si rifugia in un rapporto privilegiato con il boss del quartiere (Mahershala Ali) e la sua compagna (Naomi Harris), disposti ad accoglierlo in casa e a prendersi cura di lui. Nella seconda fase ritroviamo Chiron (Ashton Sanders) adolescente. Si fa chiamare col suo vero nome, è cresciuto, tante cose sono cambiate eppure è ancora vittima di bulli a scuola. Solo Kevin, un amico non qualsiasi, ha con lui un rapporto privilegiato. Nella terza ed ultima fase  Chiron (Trevante Rhodes) si fa chiamare Black, è totalmente cambiato e ha intrapreso un percorso che lo sta portando a prendere piena consapevolezza della sua identità.

Moonlight di Barry Jenkins

Una scena del film

Tratto dalla pièce teatrale Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, il film si nutre delle potenti suggestioni visive della brillante fotografia di James Laxton: non un mero elemento completivo bensì il fulcro della creazione di questo dramma grazie alle diverse sfumature di colori che diventano elemento estetico distintivo per ciascuno dei tre capitoli, e i contrasti netti, che sono rivelatori di quelle temperature attraverso cui la condizione umana del protagonista si manifesta, rimandando molto spesso a quel blu dell’acqua, elemento ricorrente del film.
Forte in questo senso, i riferimenti estetici e di inquadrature provenienti da opere del cinema asiatico (quando si parla di fotografia virata su tante sfumature come non citare il taiwanese Millennium Mambo di Hou Hsiao-hsien), e in particolar modo al cinema del cinese Wong Kar-wai (In the mood for love, 2046, The Grandmaster, Happy togheter ed altri) di cui lo stesso Jenkins si è detto essere grande ammiratore.
Se da un lato la divisione in capitoli aiuta il regista a raccontare una vicenda che nel suo lento scorrere, a volte lentissimo, si rivela essere una auto-discovery, ossia una ricerca costante del protagonista della propria sessualità e della mascolinità come rivelatori di un’identità sociale, le ellissi della narrazione sono dei veri salti mortali, e hanno intriso qualcosa di fortemente didascalico. Creando un intenso dramma ove spesso regna il silenzio, Jenkins mette in gioco tutto se stesso, non sottraendosi un attimo ai temi fortemente autobiografici  di droga, violenza, povertà, discriminazione, filtrati attraverso la diversità sessuale che Chiron scopre per caso, innamorandosi dell’amico Kevin.

Moonlight di Barry Jenkins

Il regista Barry Jenkins

Con coraggio il regista si cimenta in scelte stilistiche forti: basti pensare che a una fotografia così forbita aggiunge una virtuosa varietà di tecniche di ripresa che arrivano ai limiti del giusto, tra giri di steadycam, soggettive in corsa, carrellate a seguire, panoramiche miste, dettagli, macchina a mano (che associati ad un certo tipo di fotografia sono tutti elementi del cinema di Wong Kar-wai, e non può essere un caso) e che a tratti sembrano emulare nelle modalità quello stile malickiano fatto anche di jumpcuts e messe a fuoco (detto che c’è qualcosa di Terrence Malick nella stragrande maggioranza delle produzioni contemporanee, anche in quelle firmate da chi Malick non lo ha mai visto, e che Malick  quindi non è né inventore né detentore di alcun diritto d’autore in materia).
Attraverso l’ottima performance del completo cast attoriale, Moonlight è un’opera universale che va oltre la fruizione di una sola fascia di pubblico, e non racconta solo il calvario emotivo di Chiron, ma di tutto un popolo emarginato. Jenkins urla fortemente la necessità di un’emancipazione sentimentale, sociale, e quindi politica, narrando il dramma quotidiano di un uomo tormentato dalle sue passioni, e pone, a sé e a chi guarda, molte domande: sappiamo chi siamo davvero? Siamo il frutto dei nostri ambienti sociali? Siamo in grado di superare certi ostacoli o essi si impossessano di noi? Non risponde a tutte le domande, ma lascia libera interpretazione, e in questo modo costruisce un film che parla a tutti. Un film che ha nell’elemento onirico e in quello poetico una ricerca costante, già solo nel titolo, che a tratti sfiora, ma che non sempre carpisce, attraverso un lavoro che valorizza l’aspetto intimista della pellicola, ma che non riesce tuttavia a dare un impatto emotivo davvero degno di nota.

Luca Taiuti

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