Manlio Boutique

L’attore afroamericano torna alla regia dopo dieci anni, in un film candidato a 4 Premi Oscar, tratto dall’opera Premio Pulitzer Fences di August Wilson.

Barriere di Denzel Washington

La locandina

Il teatro non è il cinema, e il cinema non è il teatro. Entrambi migliorano la vita e sono puro nutrimento per l’animo di chi li ama, ma nessuno dei due è una scienza esatta. Il teatro è l’arte del presente, il cinema non ha tempo. Hanno l’una a che fare con l’altra, ma l’una non è necessariamente parte integrante dell’altra. Possono un ateo e un cattolico andare d’accordo, un sordo-muto e un cieco comunicare tra loro e due arti così vicine eppur composte da due linguaggi così diversi, prestare l’una pieno servizio all’altra?
Di opere teatrali trasposte al cinema ce ne sono state tante, e tante ancora ce ne saranno, ma di memorabile riuscita, soprattutto negli ultimi decenni, ne ricordiamo solo alcune, molte di provenienza americana, forse per la maggiore adattabilità di una lingua ad un mezzo che sembra esser loro più congeniale.
In questa sfida si cimenta Barriere, film diretto e interpretato da Denzel Washington (premio Oscar nel 1990 come miglior attore non protagonista per Glory – Uomini di gloria e nel 2002 come miglior attore protagonista per Training Day, ndr), che dopo dieci lunghi anni torna alla regia di un film, che si aggiunge a quelle precedenti opere di stampo autobiografico (il pregevole Antwone Fisher del 2002 e l’ottimo The Great Debaters – Il potere della parola del 2007) definibili come veri manifesti di una totale devozione nel raccontare le tematiche dei diritti civili e delle questioni sociali che hanno afflitto la popolazione afroamericana negli Stati Uniti dal dopoguerra in poi.
Ambientato nella Pittsburg degli anni ’50, Barriere racconta la storia Troy Maxson (Denzel Washington), un afroamericano ex star del baseball, ora spazzino, che lotta nelle avversità quotidiane contro le discriminazioni razziali proteggendo la sua famiglia composta dalla moglie Rose (Viola Davis), e i figli Lyons e Cory, fratellastri, il primo con la passione per il jazz e il secondo per il football. Padre ossessivo e severo, Troy commetterà un tragico errore che gli costerà caro, mandando in pezzi quell’equilibrio costruito a fatica all’interno di una vacillante serenità famigliare.

Barriere di Denzel Washington

Denzel Washington

Come si accennava, il film (arrivato tra i nove finalisti candidati ad aggiudicarsi il premio come migliore per gli Oscar 2017) è un adattamento cinematografico di Fences di August Wilson, opera teatrale di enorme successo (più di 525 repliche a Broadway) che fece guadagnare un Tony Award, un New York Drama Critics’ Circle Award e, soprattutto, il Premio Pulitzer nel 1988 allo stesso Wilson, riuscito a scrivere la sceneggiatura per questo film poco prima di morire nel 2005, e attualmente candidato postumo ai venturi Oscar 2017 per la miglior sceneggiatura non originale. Fences appartiene a quello che è stato definito come sesto dramma del ‘The American Century Cycle’, un ciclo di dieci opere che racconta la storia afroamericana dalla schiavitù alla grande migrazione dalle campagne del Sud degli Stati Uniti alle città del Nord, dalle lotte per i diritti civili ai processi di urbanizzazione post-industriale. Denzel Washington, che a lungo aveva rincorso il desiderio di realizzare questo progetto anche per forti motivi personali, era già riuscito nel suo intento quando nel 2010, accompagnato dalla favolosa Viola Davis (la stessa che interpreta la moglie di Troy nel film, in un ruolo che per il teatro fu anche dell’immensa Mary Alice) aveva portato in scena l’opera, ottenendo un favore di pubblico e critica consacrato da tre Tony Award. Ma il successo teatrale di Washington, non ha impedito allo stesso di ricreare per questo film un clima da dramma familiare fuori dal comune, in quella che è senza dubbi la sua opera registica cinematografica più matura e completa.
La sua è una regia “pulita”, essenziale, non per questo priva di raffinati tecnicismi che non abbassano mai la tensione interna del film, ma che vanno incontro alla drammaturgia, in una sinergia tra testo (e quindi autore) e regia che ci suggerisce la romantica soluzione di unione di intenti in quella tanto discussa dicotomia cinema-teatro.  Con la sua esperienza, Washington capisce che la grandezza del terreno che pratica gli impedisce di allontanare l’attenzione dello spettatore dal testo, e non sovraccarica la sua creatura di espedienti ridondanti, ma anzi applica una strategia della sottrazione, esclusivamente cesellando gli ingranaggi di una macchina quasi perfetta.
Tutto lavora per il testo: dall’incredibile fotografia di Charlotte Bruus Christensen, alle scenografie essenziali di David Gropman e ai pochi esterni di cui si avvale, ai costumi di Sharen Davis e le musiche di Marcelo Zarvos. Solo alla parola non viene data mai tregua. Nei primi venti minuti, infatti, si possono già assaporare quei dialoghi incalzanti che caratterizzano gran parte del film.

Barriere di Denzel Washington

Denzel Washington e Viola Davis

Il regista si avvale delle performances sontuose di un cast di attori di pregevole fattura, dei veri e propri “leoni in un’arena”, che si provocano a vicenda in uno slang portato ai suoi massimi ritmi anche grazie ad un montaggio spregiudicato, ove ogni inquadratura è una frustata di emozioni. Lo straordinario e puro talento di Danzel Washington (candidato agli Oscar 2017 come miglior attore protagonista), i cui lunghi e teatrali monologhi hanno il sapore dell’incredibile, deve far fronte all’elegante e drammatica interpretazione di Viola Davis (anche lei candidata come miglior attrice non protagonista), probabilmente la migliore del cast. Li accompagnano il superlativo Stephen Henderson (nei panni del vecchio Bono), e i giusti Russel Hornsby e Jovan Adepo (nei ruoli dei fratelli Lyons e Cory) oltre che Mykelti Williamson, nel commuovente ruolo di Gabriel, fratello minore di Troy, in un film tutto incentrato sugli attori.
Volendo sbizzarrirsi nel trovare un paio di riferimenti eccellenti, se la prima metà del film che viaggia a ritmi scatenati ci ricorda qualcosa del cinema frenetico di Spike Lee, soprattutto nel linguaggio, la seconda invece, più intima, delicata e sommessa, ci suggerisce con quei silenzi e quelle inquadrature lunghe qualcosa che ci riporta alla mente la straordinaria produzione di John Cassavetes. In esso la poesia, seppur molto presente, non è mai spasmodicamente cercata o rincorsa, bensì intrisa e lanciata tra la quotidianità delle vicende, e risplende qui e li, ondeggiando nei meandri di una drammaturgia che non mostra un attimo di cedimento, come gran parte del teatro americano ci ha abituato. Ed appunto la provenienza teatrale di quest’opera, nel bene e nel male, si sente tutta, e non può che assecondare i palati dei più appassionati, e forse a tratti annoiare chi non lo è (ma noi lo siamo, e non sappiamo dirvi come ci si sente dall’altra parte!).
Barriere è un film sulla lotta di classe, sui sogni infranti, sullo scontro generazionale, sui fragili equilibri e i conflitti familiari, sul sacrificio di un uomo duro, quanto la vita è stata con lui, che procede verso uno sgretolarsi personale progressivo, nonostante la “barriera” che egli deve sorreggere attorno alla propria casa per proteggerla (da qui prende il titolo il film dall’inglese fences, barriere appunto), impedendo ai mali dell’esterno di colpire la sua famiglia; barriere che metaforicamente pongono le persone, e che la società stessa pone agli individui che non possono far altro che condizionarsi a vicenda.
In definitiva, dunque, un’opera onesta, delicata, intensa, vera, essenziale, necessaria, e che non si propone di farci dimenticare da dove viene ma che anzi ci avvicina al teatro più di quanto possa fare un manuale o un saggio. È il film dei contenuti oltre la forma, del senso oltre le parole, e dalle emozioni oltre qualsiasi altra cosa.

Luca Taiuti

Print Friendly

Manlio Boutique