Jackie, l’anti-biopic secondo Pablo Larraín [CINEMA]
Il nuovo film del regista cileno segue le vicende di Jacqueline Kennedy e si presenta agli Oscar con 3 candidature, tra cui quella per la miglior attrice protagonista a Natalie Portman.
“Le persone perfette non possono cambiare. Jack cambiava sempre. Diventava più forte.”
Così, a un certo punto del film, Jacqueline Kennedy dice a Billy Crudup, giornalista a cui concede una lunga intervista, a proposito del defunto marito John Fitzgerald Kennedy. La frase sembra descrivere alla perfezione il percorso artistico del talento di Pablo Larraín, regista cileno chiamato forse alla prova più importante della sua carriera, ossia realizzare un’opera in terra straniera (Stati Uniti), finanziata dai “gringos” e distribuita dal colosso Fox. Dopo essersi guadagnato “step-by-step”, a suon di opere potenti, il riconoscimento del grande pubblico, e dopo lo splendido Neruda – il ritratto di un uomo (Pablo Neruda) attraverso cui prende corpo una indagine sulla natura della poesia in una perpetua esplorazione tra visioni e realtà -, il maturo Larraín firma il suo secondo consecutivo biopic, stavolta più emotivo e meno cinico, su una celebre anonima donna, in un mosaico di storie, analisi, fughe interiori e confessioni che affiorano alla mente della protagonista come ricordi (più o meno) vissuti.
Dopo l’attentato di Dallas del 22 novembre 1963 in cui perde la vita il presidente degli Stati Uniti e marito J.F. Kennedy, la vedova Jacqueline è costretta a fare i conti con il dolore e il trauma che proverà a superare con sofferenza per trovare fiducia nel futuro, consolare i figli e rendere immortale la figura del marito.
Se fosse stato un film incentrato sull’aspetto storico, più che su quello della solitudine umana, non sarebbe stato il cinema di Pablo Larraín, il quale non ha paura di stravolgere il lato cronologico per prediligere l’aspetto emozionale di un racconto fatto di ossessioni e angosce, che non trovavamo così presenti dai suoi spregiudicati e fortissimi Tony Manero e Post mortem. Il regista torna, come allora, a raccontare come il potere influisca sugli uomini, sovrastandoli oltre la loro percezione; Jacqueline Kennedy e la sua aspirazione a regalare al marito una memoria mediatica trionfale, è frutto di quel potere che a sua volta ha vissuto sulla sua pelle. Come totale interprete di tale sentimento, Larraín sceglie di dare le chiavi del film all’eccezionale Natalie Portman, che ci delizia con la sua delicatezza, la sua intensità, la severità dei suoi sguardi e il fascino del suo volto. Nella performance della prima attrice “importante” della sua carriera, il regista cileno si immerge e si innamora completamente, con quel modo di fare che porta il suo cinema ad essere qualcosa di superiore: il suo stile, del resto, è uno dei pochi che riesce ad entrare in piena simbiosi con i suoi protagonisti – capacità rara – attraverso l’utilizzo raffinato e spregiudicato della macchina da presa, che quasi si posa addosso ai personaggi con discrezione.
Per raccontare le debolezze e la fragilità della sua interprete, seguendola e antecedendola nei suoi costanti giri in una Casa Bianca ormai vuota, senza mai darle tregua (per novantanove centesimi di film), avvalendosi di primi piani stretti di sublime fattura e di momenti di astrazione, Larraín realizza un atto d’amore totale per quel cinema neorealista italiano e quindi quella nouvelle vague, che facevano della camera stylo più di una cifra stilistica unica nel suo genere. E come era stato per quegli stranianti e geniali chroma key in Neruda, la sua devozione non conosce limiti, e qui si manifesta nella riproduzione della trasmissione televisiva in bianco e nero in cui Jacqueline presenta al pubblico la Casa Bianca, in un gioco tra la finzione delle parti ricostruite e la verità dei filmati di repertorio (come anche la parte delle persone riflesse sul finestrino della macchina che porta Jackie al funerale del marito), espediente che già aveva sperimentato con successo per il suo straordinario No – I giorni dell’arcobaleno. Tutto questo è sorretto dalla già citata eccezionale performance di Natalie Portman (candidata al premio Oscar 2017 come miglior attrice protagonista, mentre le altre due candidature sono per la miglior colonna sonora e migliori costumi), di cui è innegabile l’imperscrutabile garbo che si evince anche solo nel tenere una sigaretta in mano e guardare fisso il suo interlocutore, ed è completato da una ricerca visiva che si nutre della fotografia di Stéphane Fontaine.
Il cast è completato dal Peter Sarsgaard nel ruolo di Robert F. Kennedy, a cui il film da l’onere di affrontare i lati più politico-religioso-esistenziali, di cui non siamo pienamente convinti; John Hurt (scomparso di recente) nel ruolo del padre confessore di Jackie; Billy Crudup nel ruolo chiave del giornalista che intervista Jeckie, e che sarà il canale preferenziale per dispiegare il racconto; la brava Greta Gerwig nei panni dell’assistente personale di Jackie e Caspar Phillipson nei panni di JFK negli ultimi minuti di film, in delle scene di forte impatto emotivo.
In Jackie l’aspetto biografico è rispettato ma non venerato, lontano da qualsiasi semplificazione celebrativa, e se a qualcuno questo farà storcere il naso, non deve essere preso come affronto, ma anzi come chiave di lettura di un’opera senza retorica, matura e destinata a dividere, come in fondo avevano già fatto tutte le opere di un regista straordinario perché uno dei pochi interessato più che alla storia, alla verità. La verità che il cinema di Larraín esprime nel pieno della sua finzione cinematografica, interpretando, più di altri, il senso di quel meraviglioso e potente gioco che è l’arte del fare cinema.
Luca Taiuti