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A Sala Ichos l’ultimo movimento della trilogia Tutto è bene quel che finisce, il fulminante progetto di “teatro di dialogazione” portato avanti con sapidità e intelligenza dal duo/non-duo Quotidiana.com

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Foto Angelo Maggio

Due sedie in scena, s’il vous plait, bagnate dalla rugginosa, gialla – ostile e acida – luce di scena; aspettano là, con la loro solita aria in cui scintillano mute arguzia e insofferente inadeguatezza, Roberto Scappin e Paola Vannoni, che ritornano un anno dopo sul luogo del delitto (Sala Ichos a San Giovanni a Teduccio) per completare la brillante trilogia di Tutto è bene quel che finisce, portando in scena (dal 24 al 26 febbraio) Lei è Gesù.
Aspettano là, e dalle loro mani fanno capolino, quasi etichette delle dramatis personae ed indice della loro differenziata attitudine alla vita, due libri: lui stringe a sé la sacra Bibbia, mentre lei, con più prosaica intenzione, lascia penzolare un Vogue dalla sua mano: ché “possono tornarci utili” – ad  avere “un contraddittorio adeguato“, s’intende.
Piccola gemma inserita nello scenario e nella narrazione – a patto che di narrazione si possa realmente parlare –  è la “bottiglina della Madonna” che sta ai loro piedi: che contenga acqua santa o grappa – perché “la grappa fa miracoli” -, essa non cambia il suo sembiante, restando inanimata e perenne effige della madre di Gesù; ma se la madre di plastica resta uguale a se stessa non altrettanto si può dire del figlio in carne ed ossa, che, se in scena cambia sesso (si dia il benvenuto a Gesuina), allora, mutatis mutandis, risulterà trasformato sia nell’aspetto che nei pensieri.
È questa la curiosità di partenza: e se Gesù fosse stato donna?
Da qui preso l’abbrivio, il duo riminese fa spazio al suo usuale periodare annoiato ma fulminante, in cui la piccola Gesuina – bocca di verità che rifonda il credo e la sua laica chiesa -, pur dovendo fare i conti con le caratterizzanti condizioni biologiche (“Lo Spirito Santo non toglie le mestruazioni, quelle te le devi tenere“) e culturali ( una bambina “non poteva andare in giro per il mondo giorno e notte a scodinzolare per il mondo a predicare“) imposte dal genere, prepara il suo Discorso della Montagna – stavolta ambientato presso una “casetta dell’acqua” – esortando i convenuti allo spirito critico, da mescolarsi con un pragmatismo tutto femminile che non contempla né il sacrificio della crocifissione né il buonismo della carità. Il suo sodale sull’assito si fa Mosè per un giorno, dettando dieci comandamenti nuovi di zecca, non propriamente cristiani cristiani (“Irascor ergo sum“), ma molto più umani nella loro capacità di fotografare il reale. Tuttavia, questa rivendicazione di un Gesù femminile/femminista lascia intenzionalmente sotto gli occhi del pubblico le sue imperfezioni: è difficile immaginare che ciò che è stato possa essersi verificato altrimenti da come è attestato che sia stato; ed è difficile per Gesuina non mettersi “in contrapposizione col Gesù uomo” pur volendo essere null’altro che un alter ego del Gesù uomo.

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Foto Angelo Maggio

Eppure, pur affermandosi in maniera indubitabile l’originalità e l’intelligenza della drammaturgia di Scappin e Vannoni – che, inoltre, si confermano sul palco quali abilissime voci stanche ma puntualissime, sussurrate ora con languida noia, ora con spietata verità, ma sempre “a tempo” – quest’ultima piece della trilogia appare meno incisiva e, se si vuole, meno riuscita rispetto alle due che l’hanno preceduta (RECENSIONE/1RECENSIONE/2). L’impressione è che qui due caratteristiche salienti della loro arte siano in parte mitigate: in prima battuta, quanto alla forma del testo, è qui meno percepibile quel rapporto con l’assurdità e l’insensatezza che il quotidiano ci propina come normalità, ed in tal modo l’annoiato conflitto – nel quale i Quotidiana.com sono protagonisti in qualità di assertori di arido vero – contro la banale esistenza di ogni giorno risulta indebolito dall’interno, per mancanza di temi, per l’inconsisternza di uno dei due poli dicotomici, il quotidiano nonsense.  Ma c’è un secondo vulnus, probabilmente ancor più profondo, che parzialmente sfibra la messinscena: giustapposti ai molti momenti di geniale sapidità e di straniante acutezza, ecco che si presentano – lupus in fabula – passaggi che suonano normali, ovvero non dirompenti e quasi retorici, peccato mortale per una drammaturgia che vuole incendiare raggelando, e che non può permettersi  dunque tali pur minimi blackout drammaturgici.  

Antonio Stornaiuolo

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