Il giocatore di Dostoevskij, o della incompiutezza della forma
Al Teatro Bellini di Napoli è in scena, dal 14 al 26 marzo, Il giocatore di Dostoevskij nell’adattamento di Vitaliano Trevisan e per la regia di Gabriele Russo, terza e ultima tappa della Trilogia della libertà.
Un uomo, costretto su una sedia a rotelle, occupa, suo malgrado, il centro della scena. Non se ne conosce ancora l’identità, ha il volto coperto da uno spesso cappuccio nero, quello della stessa giacca che indossa. Alle sue spalle si erge, ieratica, la lugubre figura di un altro uomo, elegantemente vestito in frak con tanto di cappello a cilindro sulla testa. Tra le mani, rivestite di candidi guanti bianchi, tiene saldamente stretta la sedia a rotelle, divertendosi sadicamente a spingerla con forza avanti e indietro, in un atto di cieco predominio sull’uomo che vi è seduto e che non può fare altro che afferrarsi energicamente alla sedia di cui è schiavo. Il suo corpo, completamente soggiogato dal vorticoso movimento, comincia così a contorcersi su se stesso, nel vano tentativo di assecondare l’insano gesto compiuto senza posa dall’uomo in frak. Ma questi non si arresta, anzi, prosegue nella sua folle impresa che diviene sempre più convulsa, frenetica, scomposta, riuscendo infine a far sobbalzare l’uomo dalla sedia e a scaraventarlo rovinosamente al suolo, come un oggetto ormai inerte. Nel cadere, il volto si scopre e l’uomo comincia improvvisamente a parlare: è Aleksej Ivànovic, il tragico protagonista della storia cui stiamo per assistere, l’io narrante che ci condurrà, come un novello Virgilio, attraverso l’inferno di una vita completamente asservita al diabolico vizio del gioco.
Con questa sconcertante scena si apre Il giocatore di Dostoevskij, nella trasposizione drammaturgica di Vitaliano Trevisan e con la regia di Gabriele Russo, che ha fatto il suo debutto, in anteprima nazionale, al Teatro Bellini di Napoli (coproduttore insieme al Teatro Stabile di Catania) lo scorso 14 marzo. Solo ora, una volta scoperte le carte in tavola, possiamo tentare di decifrare il significato metaforico che si cela dietro questa scena iniziale: Aleksej non è più in grado di reggersi sulle proprie gambe, la sua integrità morale è sfibrata dalla incapacità di sottrarsi ai richiami del vizio, la sua forza di volontà è come paralizzata dall’effetto distrofico inoculato dalla nevrosi ossessiva del gioco. È un uomo senza volto, poiché la sua identità è del tutto annichilita, consumata dall’azione corrosiva della ludopatia di cui è affetto. L’uomo in frak alle sue spalle, dal canto suo, non è altri che il croupier, implacabile sacerdote del gioco d’azzardo, nelle cui mani Aleksej ha gettato la propria vita perdendone completamente il controllo, così come si getta la pallina sul disco della roulette, affidandosi ai capricci del caso e della fortuna.
Forse è proprio questo folgorante inizio a costituire l’immagine esteticamente più efficace e simbolica dell’intero spettacolo (con cui si conclude la “Trilogia della Libertà” di cui fanno parte Arancia Meccanica e Qualcuno volò sul nido del cuculo), capace com’è di restituire la concezione antisoggettivistica e antiumanistica del gioco che fu propria di Dostoevskij. Secondo il grande scrittore russo, infatti, il protagonista effettivo del gioco non è il giocatore, ma il gioco stesso, quale si produce attraverso i giocatori. In questo modo, Dostoevskij sancisce un vero e proprio primato del gioco sui giocatori che fa sì che ogni giocare sia, innanzitutto, un esser-giocati. Il gioco, secondo questa visione, diviene così l’autentico subjectum, mentre i giocatori scadono al livello di un oggetto giocato all’interno delle medesime dinamiche generate dal gioco. Non a caso, la vicenda de Il giocatore si svolge in Germania, in una cittadina fittizia chiamata Roulettenburg, nome emblematico teso a sottolineare come tutto giri intorno al gioco della roulette, che si erge a simbolo universale delle relazioni sociali. Da qui l’idea del gioco come metafora stessa della realtà, ossia come inesauribile auto-rappresentazione o auto-manifestazione dell’essere.
Questo assunto di fondo, che costituisce il nodo centrale e l’asse teoretico portante dell’intera vicenda narrata nel romanzo di Dostoevskij, non trova tuttavia una sua forma estetica compiuta e convincente nel successivo sviluppo della rappresentazione scenica, imbrigliata com’è in una commistione caotica di generi diversi e di piani narrativi tra loro spesso disomogenei. Certo, l’idea di mantenere lo spettacolo in costante bilico tra dramma e commedia, e dunque in una tensione continua tra forma e non forma, è nelle stesse intenzioni del regista, ma finisce con lo svilire la resa complessiva della messinscena, che non sempre riesce a tenere insieme le diverse tessere di cui si compone il mosaico narrativo. I ripetuti passaggi da un piano all’altro della narrazione, infatti, risultano spesso macchinosi, costringendo gli attori in scena a bruschi cambiamenti di registro che rendono la recitazione, in alcuni punti, forzata e priva di reale spessore. Questo “caos della forma”, del resto, tradisce la stessa poetica di Dostoevskij che riteneva che la funzione più significativa dell’artista fosse quella, invece, di attribuire una “forma al caos”, ovvero di oltrepassare la realtà data nella sua assurda caoticità al fine di trarne, attraverso l’espressione estetica, nuove forme compiute di vita. Nello spettacolo non si assiste a questa sorta di “metamorfosi del caos”, e così la stessa delineazione psicologica dei vari personaggi che si avvicendano sulla scena non giunge mai a reale maturazione, restando ferma ad uno stadio embrionale, di semplice abbozzo caricaturale. Tutto rimane ad un livello superficiale, di pura rappresentazione dell’uomo esteriore, della maschera che gira per il mondo, mentre manca del tutto l’indagine della vita sotterranea, ovvero di quel “sottosuolo” irrazionale dell’uomo che costituisce la cifra distintiva dell’universo letterario e filosofico di Dostoevskij.
Ciononostante, lo spettacolo presenta alcune soluzioni drammaturgiche e sceniche alquanto originali ed efficaci.
L’identificazione di Dostoevskij con Aleksej, così come quella di Anna Grigor’evna con Polina, è resa possibile facendo interpretare i quattro personaggi dagli stessi due attori, rispettivamente Daniele Russo e Camilla Semino Favro, di certo tra i migliori in scena. È un espediente narrativo che funziona perfettamente, capace di mostrarci come Dostoevskij tragga dalla propria vita, dalla propria miseria, dalle proprie tentazioni e dalle proprie colpe la materia dolorosa e vivente dei suoi romanzi. È un congegno narrativo, tra l’altro, che si lega saldamente al tema dostoevskijano dello sdoppiamento, ovvero della con-fusione tra il reale e l’ideale, tra la realtà e il sogno. L’idea di farci assistere all’intreccio tra il racconto della genesi del romanzo e la messa in scena del romanzo stesso, inoltre, rende bene la predilezione di Dostoevskij per il procedimento narrativo della confessione, la sua propensione per il racconto in prima persona o comunque racchiuso nell’orbita percettiva del protagonista che, mai come ne Il giocatore, coincide con quello dell’autore.
L’intera pièce è attraversata dal senso drammatico dello scorrere del tempo, ottenuto tramite il ritmo serrato e incalzante della narrazione, che ricalca in maniera puntuale quello della scrittura stessa del componimento, dettato freneticamente da Dostoevskij ad Anna Grigor’evna (che poi diventerà sua moglie) in soli 28 giorni, dall’ottobre al novembre del 1866, per far fronte ad un contratto iugulatorio stipulato con l’editore Stellovskij con il quale lo scrittore russo si impegnava a cedergli, per ben nove anni, i diritti sulle sue opere se non fosse stato in grado di consegnargli, entro una data stabilita, un nuovo romanzo da dare alle stampe.
Dal punto di vista scenico e recitativo, infine, lo spettacolo restituisce in modo esemplare il senso di quella che Michail Bachtin, fine interprete dell’opera di Dostoevskij, ha definito come “carnevalizzazione letteraria”: tutti i personaggi in scena sono simili a maschere tipiche della commedia dell’arte, rappresentano una specie di collettività carnevalesca. Il generale (Marcello Romolo), M.lle Blanche (Martina Galletta), Mr. Astley (Alfredo Angelici), il marchese De Grieux (Sebastiano Gavasso), la “baboulinka”, ovvero la nonna (Paola Sambo), il croupier (Alessio Piazza), così come i due protagonisti Aleksej e Polina, sono tipi umani che vivono al di fuori delle regole e dell’ordine imposti dalla vita normale. Tutta la loro esistenza gravita intorno al gioco della roulette. Ed è proprio la natura stessa del gioco a conferire quella particolare sfumatura di carnevalizzazione presente nello spettacolo, messa visivamente in risalto, tra l’altro, dai bei costumi realizzati da Chiara Aversano. Affollandosi al tavolo della roulette, infatti, tutte le differenze sociali e gerarchiche si annullano, vengono livellate sia dalle condizioni del gioco, sia di fronte alla fortuna e al caso. Eppure, ognuno recita la propria parte affidandosi ai capricci della sorte, puntando tutto se stesso su un numero o un colore, sapendo che non potrà ritrattare la sua scelta, che il suo cammino è definitivamente tracciato e non gli sarà più possibile tornare indietro, poiché ormai rien ne va plus, les jeux sont faits!
Armando Mascolo
Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14 – Napoli
contatti: http://www.teatrobellini.it/ – 081.5491266