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Il testo di Miguel de Cervantes rivive in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli fino al 2 aprile per la riscrittura e la direzione di Ruggero Cappuccio, tra strane e intricate tracce di bellezza frammischiate a un senso di Spannung mancata.

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Foto Marco Ghidelli

Intendiamoci subito.
Quando un’opera teatrale sa schiudere dinanzi al pubblico tante e tali meraviglie così come fa Circus Don Chisciotteuna riscrittura dottissima e a tratti assolutamente pregevole di Ruggero Cappuccio, prodotta dal Teatro Stabile di Napoli, che si avvale della presenza sul palco di attori straordinariamente abili (su tutti Giovanni Esposito, oltre allo stesso Cappuccio) e della tacita ma altrettanto perita collaborazione di veri e propri professionisti di scenografia (Nicola Rubertelli), musica (Marco Betta) e costumi (Carlo Poggioli) – si può ben facilmente e a ragione essere abbagliati dalla bellezza musicale della lingua (o delle lingue, per meglio dire), dal fascino metamorfico della trama e dalla ricchezza di spunti e temi su cui il drammaturgo di Torre del Greco ricama con la consueta e pregevole penna d’autore; eppure stavolta il miracolo del teatro appare parzialmente attutito, non compiuto perfettamente e ancora in itinere, al punto che talune ombre, fragilità, passaggi a vuoto, ancorché per brevi tratti della messinscena, fanno sì che la piéce, sia pur momentaneamente, ristagni sotto il peso della ripetizione di voci e situazioni di scena.
Il San Ferdinando apre i suoi preziosi battenti – e lo farà fino al prossimo 2 aprile -, lasciando transitare un nugolo di distinti spettatori per lo spazio impareggiabile del suo prezioso foyer; e giova ricordare che sono ormai ben 10 anni che il Comune di Napoli ha meritoriamente restituito alla città il teatro di Eduardo (anche se in sala l’uso della climatizzazione appare ancora perfettibile), mettendo a disposizione del pubblico partenopeo uno spazio di rara bellezza e sottraendolo all’abbandono.

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Foto Marco Ghidelli

In scena, però, dietro il sipario abbassato, è proprio uno scenario d’abbandono a mostrarsi in tutta la sua cruda bellezza: una napoletana stazione metropolitana non più frequentata da treni puntuali e cittadini in ritardo, ma vano prodigio della tecnica e dell’acciaio che fa da ricovero per vagoni vaganti e figuri derelitti, usciti fuori dai binari della ben rodata esistenza e, dunque, fuori dallo spazio della benpensante logica.
È proprio qui che, durante una peregrinazione notturna, incontriamo Michele Cervante (Ruggero Cappuccio), colto napoletano, professore universitario in pensione e sognatore demi-clochard che si dichiara quale lontano discendente (e il γένος rimane, e non si cancella con la prima pioggia) di quel notissimo Cervantes che, nel 1575, fu di passaggio nella città di Napoli ma che ivi si eternò nel ventre di una donna locale: nel nostro ispanico-napoletano, che Cappuccio anima con una finissima e plurale sensibilità di godibilità raffinata, rivive, da una parte, lo spirito prediletto dal suo chimerico avo – quel Don Quijote de la Mancha che è paradigma per il suo visionario senso di giustizia e per la pervasiva influenza esercitata dell’universo letterario sulla sua vita di personaggio, mentre, dall’altra, emerge in controluce la titanica figura di Gerardo Marotta, il più che encomiabile avvocato e filosofo napoletano che si è distinto splendidamente per tutta la vita nella difesa di quell’avamposto della civiltà che sono i libri.
Ma Cervantes non concede che un hidalgo resti senza scudiero: a far da compagno di ventura sarà qui un girovago nullatenente, un personaggio antico e di genuina bontà, che un tempo si è diretto nella grande città dall’amato paese per giocare alla vita, finendone giocato. Il suo nome è Salvo, ribattezzato dal professor Cervante Salvo Panza: sul palco è un portentoso Giovanni Esposito, capace di essere felice e cogitante e ironico ed entusiasta in un modo così vero e così comunicativo da lasciare la platea senza parole; egli è molto più che una spalla, ma un protagonista assoluto, in grado di muovere voce e gambe e cuore all’unisono, sia partecipando alle ardimentose imprese del suo condottiero – in qualità di braccio destro – che rimanendo all’esterno delle stesse – nelle vesti di acuto osservatore d’estrazione popolare. È a lui e al suo continuo e straniante dialogo col professore Cervante che si devono i momenti più strettamente comici della messinscena; è a lui e alla sua nostalgia per il suo mondo antico – e , insomma, alla sua materica saggezza – che si deve una delle direttive principali della piéce: quell’amore per la vita genuina e pura, ormai disumanizzata da una modernità insensata che fa presto a cancellare il passato ma che non è in grado di disegnare un degno presente e futuro.
Completano il sestetto in scena – portando con sé movimento, novità e dialetti diversi, con voci musicali differenti ma armoniche – Giulio Cancelli, Ciro Damiano, Gea Martire e Marina Sorrenti.

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Foto Marco Ghidelli

Eppure, proprio nel centro della messinscena, allorché il professor Cervante riesce ad arruolare i suoi precari ed emarginati compagni di brigata nel comune proposito di affermare una rivoluzione umana, la quale, servendosi dell’ausilio della scrittura e degli scrittori per la sua stessa divulgazione, rivendichi e ristabilisca il naturale ordine gerarchico tra persone e cose – oggidì sovvertito dalla tecnologia invasiva e infettiva che consuma e svilisce e degrada l’umanità -, l’opera non cambia passo, non scatta in avanti, non batte il tempo in un frangente in cui, invece, ci sarebbe probabilmente bisogno di un punto culminante per la tensione drammaturgica.
E così il pubblico – sia forse per la natura stessa del Don Chisciotte, opera certo avventurosa ma pure onirica e dalla struttura centrifuga, sia forse per la scelta registica di porre in evidenza la dimensione altra intesa come spazio franco in cui si può manifestare l’ “assurdità controcorrente” di scegliere l’uomo come protagonista della vita – è proiettato in una fiaba dai contorni sfocati, e si trova a camminare come su una nuvola, che però sotto i piedi risulta per qualche passo troppo sottile per sostenere l’apparato epistemologico dei moderni spettatori.
Ad ogni modo, Circus Don Chisciotte ha davvero molte e molte cose da insegnare: la messinscena mostra innanzitutto – e con grande chiarezza – che l’amore parla in una lingua sua propria, e che non ha bisogno di andare a scuola per potersi esprimere, e che riesce a costruire il mondo coi suoi desideri, ma che questi, poi, per essere tradotti in atto, debbono passare per le vie dell’intelletto; mostra che i libri costruiscono ponti sui quali gli uomini possono camminare sicuri anche nelle difficoltà, e che se anche talvolta essi sembrano portare lontano dalle altre persone, alla fine ci riconducono sempre verso l’umanità; e insomma insegna che, se è vero che “un libro si scrive ogni volta daccapo quando è letto con amore“, allora la vita è sempre già scritta, ma sempre nuova, a patto che noi abbiamo il coraggio di viverla inseguendo la nostra strada, anche quando questa paia fumosa o malsicura, purchè sia davvero quella nostra.

Antonio Stornaiuolo

Teatro San Ferdinando
piazza Eduardo De Filippo 20, Napoli
contatti: 081 551 33 96 –  biglietteria@teatrostabilenapoli.it – info@teatrostabilenapoli.it – http://www.teatrostabilenapoli.it/

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