Pietro Marullo: da Napoli a Bruxelles la storia di un giovane artista cittadino del mondo [INTERVISTA]
Teatro, arte plastica, danza e suono al centro del lavoro sulle Arti del poliedrico attore napoletano che ha scelto l’Europa come suo palcoscenico.
Classe 1985, di origine calabrese, Pietro Marullo è davvero un artista con la valigia. Nato a Napoli, si forma a Milano, Londra e Parigi, concentrando la sua attenzione sulla maschera e il movimento; poi nel 2008 parte alla volta di Bruxelles. Qui avvia una serie di importanti collaborazioni a livello europeo e intanto moltiplica le sue esperienze esplorando l’arte nelle sue varie forme e implicazioni.
Attualmente professore all’ Accademia Nazionale di Musica e Teatro di Vilnius in Lituania, a QuartaParete si è raccontato con generosità, spiegandoci la genesi dei suoi lavori e a cosa essi si ispirano.
Come nascono i tuoi spettacoli?
«Credo, istintivamente. Ma poi diventano subito processi complessi, agglutinanti. Mi danno l’impressione di essere come dei setacci che filtrano la realtà facendo convergere nello stesso contenitore diverse dimensioni del reale che altrimenti sarebbero dimore distanti. Ogni volta parto da una questione semplice e concreta, ma poi il pensiero attiva la sua capacità associativa e costruisce insiemi che prima non esistevano. Ciò che mi interessa è capire come funziona il mondo, la società, le culture. Quali sono i loro motori nascosti. Le loro categorie, i loro amminoacidi. Ed a ogni spettacolo la mia visione della scena evolve, si adatta alla nuova questione. È questo che mi piace del teatro, la sua capacità ad essere un contenitore vuoto che può trasformarsi in qualsiasi forma. Per il momento sento che gli spettacoli rispondono a questioni che toccano la mia pelle, dal di dentro o dal di fuori. Ma mi piacerebbe ricevere un giorno un invito dall’esterno, che appartiene a qualcun altro».
Ti sei occupato di parricidio, del lavoro massacrante che gli extracomunitari fanno nel nostro Paese e presto del tema del naufragio e del concetto di frontiera. In base a cosa scegli il soggetto da studiare e sviluppare nelle tue pièce?
«Sento che quasi sempre sono i soggetti che vengono verso di me. Li trovo lungo il percorso, passo dopo passo. Io li colgo e li faccio apparire. Certo, parto da ciò che pulsa in me, intorno a me, il più vicino a me. E quindi mi sono interessato al passaggio generazionale, al fatto di arrivare dopo qualcun altro. Del momento in cui questa radice sparisce nel sottosuolo. È un atto di riflessione dovuto. Ma non credo si tratti di parricidio (Aux rêves de nos enfants del 2011). Infatti il personaggio del mio spettacolo è un’atleta di scherma in cerca di suo padre, ma è senza fioretto. Non ha intenzione di uccidere, malgrado tutto. Non cerca un posto nell’esistenza uccidendo la generazione precedente. Perché forse, poi, i padri muoio lo stesso, da soli, a causa dei propri mali. Credo che questo atleta cerchi la tela di fondo che lo conduca ad una dimensione più aperta, fondamentale, perenne come i ghiacciai.
Nel 2010, per esempio, ho assistito alle notizie delle rivolte di Rosarno. La Calabria è, in oltre, la regione dove è nato mio padre. Ma è un puro accidente, quelle stesse rivolte sarebbero scoppiate un anno dopo in Puglia. In ogni caso, un sentimento forte mi ha spinto a recarmi lì, perché volevo vedere con i miei occhi come erano cambiate quelle campagne in cui giocavo durante la mia infanzia. Ed è stato uno shock che ha ridefinito il mio stare al mondo. Vivevo sulle nuvole e una volta caduto, ho deciso di raccontare questo paesaggio invisibile, apparentemente lontano. Ho iniziato a visitare altre bidonville distese su tutto il territorio nazionale, dal Nord al Sud. Ad incontrare i migranti, le associazioni, gli esperti, i sindacati, la società civile. Volevo capire come fa ad emergere, da più di venti anni, questo processo legato alla migrazione ed allo sfruttamento in agricoltura. Due dimensioni importanti per la nostra specie. Ma non volevo semplicemente denunciare i fatti – non mi ritengo un giornalista che deve informare. Volevo creare una dimensione estetica, un paesaggio nel quale lo spettatore possa perdersi davanti a delle forme che come degli enigmi soltanto lui può tentare di risolvere. Ho piuttosto l’impressione di riscaldare il palco con domande che riguardano la forma. Non intendo cose astratte o astruse. Parlo di questioni fisiche, concrete, di fisica pura. E tutte queste riguardano il rapporto tra fondo e figura, intendo tra fondale e figura. Come fa una figura a stagliarsi da un paesaggio che incessantemente cerca di inghiottirlo?
Se, con questo spettacolo, ARANCE-avoid shooting blacks, si può riflettere su cosa accade ai migranti una volta che hanno passato la frontiera, nel nuovo spettacolo ARIANE (eu)phonie attacco letteralmente e frontalmente il concetto stesso di frontiera. Ma non nel senso geopolitico del termine. Non mi interessa l’aneddoto storico. Lo uso come trampolino per interrogare piuttosto il perché la nostra specie è solita costruire frontiere. È chiaro che dopo gli accordi del 2016 tra l’UE e la Turchia, ed il conseguente cambio di rotte migratorie, un’isola come quella di Creta stia diventando una nuova Lampedusa. Forse ci sono diecimila Lampeduse nel mondo.
Ma Creta mi offre l’occasione di fare un balzo acrobatico e di attraversare la porta dell’attualità, andando nel Passato. In un tempo certo mitico, in una dimensione allegorica, in cui si assiste alla nascita di un concetto. L’idea è quella di rivisitare il mito del Labirinto, che racconta la fondazione dell’isola di Creta ma anche la fine della sua civiltà, l’ultima delle pre-classiche. Questo mito ci è stato tramandato dai greci e poi dai latini, ma tratta di una materia cretese, di questioni molto più antiche di Atene e di Roma. I greci hanno sabotato i segni cultuali cretesi dandoci la loro versione dei fatti della loro invasione. È vero che un mito è il risultato di una sedimentazione che marca una distanza rispetto al rito originario. E forse, tanto meglio così. Perché la questione non è raccontare un’origine, o reincarnarla. No, la questione è inventare una nuova visione che sia plausibile con il mondo in cui viviamo. Credo sia l’unico modo per far tabula rasa dei discorsi attualmente diffusi che condizionano profondamente la sonosfera in cui siamo continuamente immersi. Il Labirinto non era, originariamente, una prigione, bensì una danza iniziatica e d’accoglienza. Ma questo non ha più valore, ciò che conta è che giustamente non lo è più. Che non si danza più la gioia di stare insieme. Ovidio colloca il mito minoico al centro dei suoi libri sulle Metamorfosi. Perché questa scelta così strategica per un autore classico? Mi sembra, in fondo, che questo mito tratti di tante cose tranne della metamorfosi. Anzi racconta proprio di come la metamorfosi si sia inceppata, si sia bloccata in una forma ibrida. Di fatti, il Minotauro non è né abbastanza uomo, né abbastanza animale. Questa novità culturale m’interessa molto. È come una minaccia per la comunità cretese, un veleno. Creta più che un labirinto, è stata un laboratorio di idee e di forme. E c’è qualcosa di umanamente fragile nello sguardo della donna che ha messo al mondo il Minotauro. Una solitudine immensa di fronte ad una nuova forma, abbandonata dagli dei, e sottomessa soltanto alle strategie di sopraffazione degli uomini. Sono molto toccato dall’idea di mettere in scena queste donne che hanno vissuto alla frontiera della loro civiltà ed hanno assistito, e contribuito, alla dissoluzione di quest’ultima. Questo spettacolo andrà in scena al Theatre Varia di Bruxelles, durante la stagione 2018/2019.
Il Naufragio è un altro tema fondamentale della cultura occidentale. Spesso ombrato da temi costituenti e creatori come quello del Diluvio. Ho l’impressione appunto che, contrariamente al patto salvifico che necessita il Diluvio, il naufragio riporti, la questione di un destino tragico all’interno di una comunità. E, per me, esso può anche essere interpretato sia come una dimensione interiore, che come una dimensione della specie. Credo che ognuno possa attraversare la dimensione del naufragio quotidianamente, all’interno di sé. M’interessa esplorare questo momento in cui il governante, colui che conduce la nave, perde il controllo e si confronta ad una forza più grande di lui. E voglio guardare questa forza con spavento. Con profonda paura.
Perché si tratta di un confronto asimmetrico con qualcosa più grande di sé. Quindi non semplice inquietudine, ma un sentimento paralizzante a tal punto da trasformare i corpi in statue. In impronte. Sì, una forza talmente potente da aver assorbito in sé tutto il movimento. Ed in questa stasi, c’è la possibilità di specchiarsi. Metto quindi in movimento la materia plastica ed uso il corpo in senso statuario. È interessante per noi il fatto che il debutto di questo progetto atipico ed interdisciplinare avvenga nell’ambito di un festival di danza come quello di Rovereto, OrienteOccidente».
Nei tuoi lavori, il teatro si unisce alla danza, alle arti plastiche e al suono. Come riesci a far interagire queste diverse arti tra loro senza che una prevalga sull’altra?
«Ciò che mi guida è l’idea di materializzare in scena il pensiero. Non parlo del pensiero psicologico, privato. Parlo delle categorie che agiscono e formano il mondo nel quale viviamo. Che diventano istituzioni, usi, pratiche, abitudini. Anche se non ne siamo consapevoli. Ognuna di queste arti è una tecnica, un linguaggio, al servizio di quella idea di materializzazione. Credo che l’arte plastica abbia delle capacità sintetiche formidabili. È in grado di racchiudere in un oggetto, o anche in un semplice punto disegnato, una miriade di significati. Ma non è soltanto una questione di polisemia interna propria. Questa sintesi è paradossale: più tolgo significanti dalla scena, più lascio il posto a colui che guarda e che può apportare ed aprire il suo archivio interiore e navigare nelle proprie associazioni. Credo, contrariamente a Saint Exupery, che sia l’invisibile ad essere essenziale per gli occhi.
Mi sembra, in oltre, che ogni visione bagni in una sonosfera appunto, anche quando si tratta di silenzio. È la nostra condizione, siamo costantemente attraversati dalle onde sonore esterne. Ed il suono mi sembra un ottimo strumento di ridefinizione semantica di ciò che si vede. Il suono può abbigliare uno spazio vuoto, e può governare le nostre percezioni ed emozioni. Non è un caso che l’idea dell’arte totale sia germogliata in ambienti operistici. E un giorno mi piacerebbe dirigere un’opera.
Perché forse, scolpire la musica è il vero gesto plastico.
Non sono uno specialista, ma ho l’impressione che la filosofia si sia sempre agguerrita sulla questione dell’immagine; e che l’occhio sia stato spesso messo sotto processo, attribuendogli poteri totemici anche sulla società contemporanea. Io credo che questa nuova epoca sarà quella dell’udito. Della vibrazione. Dell’immateriale».
Ti senti ancora legato a Napoli e al suo teatro? Come mai hai deciso di trasferirti in un altro paese?
«In verità conosco poco l’orizzonte teatrale napoletano. Durante la mia formazione partenopea, mi affascinava la tradizione francese e russa. È lì che è nato il germe dell’altrove. Di fatti, scelsi di partire perché avevo sete di vedere e conoscere altro, di imparare una nuova lingua, di uscire fuori dai sentieri battuti, di deragliare. Oggi vorrei costruire delle esperienze di lavoro in Cina ed in Giappone. Forse lì, la dimensione dell’altrove trova una sua manifestazione audace».
Il tuo spettacolo ARANCE – avoid shooting back vanta una produzione e collaborazioni importanti a livello europeo ed è nato grazie anche al programma delle Residenze (in Italia riconosciuto dal Ministero con il decreto del 1 luglio 2014). Per te che l’hai vissuta direttamente, può essere un’esperienza utile per una compagnia giovane ed indipendente?
«Lavorando in diversi paesi e vivendo una dimensione nomade, ho imparato che un’artista è qualcuno che deve, non soltanto inventare il contenuto di un discorso, ma soprattutto di costruirne il quadro, la cornice. Lo spazio ed il tempo, le forme ed i codici, i partner ed il pubblico. La sua mitologia e la sua filologia. Le residenze, quindi, possono certamente essere il tempo propizio dove verificare le proprie intuizioni. Dove fare la muta, cambiare epoca e paradigma. Ma mi sembra che il nostro lavoro consista soprattutto in questo, organizzare il tempo. Il tempo della ricerca, del pensiero, della rappresentazione. Il tempo della festa. Ecco, credo che ho profittato delle residenze soprattutto per creare dei legami con il tessuto sociale, universitario ed istituzionale. Mi piace rendere il teatro poroso, traslucido, contaminarlo con persone e dinamiche a lui esterne. Ritengo che proprio in questo bisogno del teatro di fondare una comunità effimera risieda un forte potere rivitalizzante. Le residenze potrebbero allora anche essere questo momento dove mettere nel setaccio questioni legate alla forma, al senso e necessariamente all’incontro».
Gabriella Galbiati