Una preghiera Laika
Dal 30 marzo al 2 aprile, sul palco del Teatro Nuovo di Napoli, Ascanio Celestini si fa portavoce di dubbi e paure universali, attraverso il racconto, in frammenti, di un’umanità, quella ai margini del mondo, nelle parole di un “povero Cristo”: nuovo Dio o nuovo Uomo?
La scena semplice accoglie Ascanio Celestini e il suo personaggio, un umanissimo Gesù, un ubriacone capace di prodigi, come quello di farsi cieco pur di recuperare una bottiglia di sambuca da bere in compagnia in qualche bar. Il nuovo profeta comincia a parlare, a travolgere il pubblico con le sue parole, messe in fila l’una accanto l’altra, scaricate addosso agli spettatori come una raffica di proiettili pronti a colpire mente e coscienza di chi ascolta. È la scrittura a cui Celestini ci ha abituato, un fiume in piena che ci fa rimbalzare da una sponda all’altra, con un ritmo sempre più incalzante, introdotto da una domanda: «Di cosa vogliamo parlare? Dell’umanità o della volta celeste che sta scivolando di diversi chilometri?». In questo interrogativo è contenuta la causa da cui scaturisce il racconto. Di Dio e dell’uomo, infatti, è costituito lo scheletro di Laika, testo che si presenta come una preghiera, usando un gioco di parole, laica, per l’appunto, che rimanda la memoria al 3 novembre 1957, quando una cagnolina randagia, che dà nome allo spettacolo, venne imbarcata sulla capsula spaziale Sputnik II. L’essere vivente che è stato più vicino a Dio, diventa simbolo e pretesto che raccorda mentalmente le esistenze che vivono e agiscono all’interno del parcheggio di un supermercato. Attento osservatore di questo spaccato quotidiano è Pietro, il coinquilino di Gesù.
Prendendo spunto da alcune emblematiche figure contenute nei Vangeli, Ascanio Celestini estrae l’essenza di ogni singolo personaggio, portando in scena una trasposizione contemporanea degli stessi e di alcuni episodi legati a loro. Pietro, in scena Gianluca Casadei e il suono sensibile della sua fisarmonica, non parla, i pensieri sono affidati alla voce fuori campo di Alba Rohrwacher. Il mutismo deriva dal suo vero nome, Simone che, come ricorda il regista nelle note, deriva dalla radice ebraica shama che significa ascoltare. Pietro è quindi colui che ascolta e che riporta le immagini di quel microcosmo, spiato dalla finestra del suo monolocale. Ma è anche colui che rinnega Cristo e che non gli crede fino in fondo, almeno fino a miracolo compiuto, al sacrificio finale, per diventare poi testimone e portavoce del prodigio salvifico. Le sue visioni e i suoi sogni prendono forma nella narrazione di Gesù: reincarnazione del Figlio di Dio o semplice uomo e in quanto tale uno tra i tanti figli di Dio? Quel “povero Cristo” racconta la dissacrante poesia del barbone, dei facchini negri, della vecchia, della donna dalla testa impicciata e della puttana, nuove Madonna e Maddalena, popolo reietto, atterrito dalle fallaci promesse che oggi si traducono nella precarietà del lavoro e della condizione umana, in cammino verso una speranza. Contro e insieme ad un Dio punitivo «grande, potente, ma un tantino incazzoso, d’altronde nessuno è perfetto», Cristo diventa il vessillo di una piccola verità, celata in fondo al mare e che ha l’odore del mare, origine di vita ed elemento che bagna e accomuna tutti gli abitanti della Terra. Figurativamente abbaiando come Laika, e cioè, in un atto d’insorgenza civile, si opera il miracolo, piccolo anch’esso, ma mosso da un’immensa pietas, ormai dimenticata.
Antonella D’Arco
Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16 – Napoli
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