L’altro volto della speranza: il nuovo film di Aki Kaurismäki
Il maestro finlandese torna al cinema dopo sei anni con una nuova meravigliosa opera sull’immigrazione: un inno alla tolleranza, alla collaborazione e alla presa di coscienza.
Se dal nulla dovessimo provare a definire il cinema di Aki Kaurismäki, potremmo senz’altro dire che esso appartiene a quella categoria rara di cui solo i classici fanno parte. Sono film dotati di uno humor geniale, dove lo spazio più percorso è sempre, e prima di tutto, quello dei valori umani. Quello di Aki Kaurismäki è un cinema puro, fatto di lunghi silenzi, inquadrature per lo più fisse, essenziale, ricco di suggestioni, inequivocabile; non cerca di cambiare il mondo, non conosce manierismi, non ammicca allo spettatore, non ha paura di raccontare storie di fallimenti di uomini qualsiasi e anti-eroi e lo fa senza morale, inducendo all’empatia con ironia. Il 60enne regista finlandese, il più grande probabilmente della cinematografia del suo Paese, è uno dei pochi capaci di portarci ai più alti piani della meraviglia dei sogni che costruisce, e che poi diligentemente demolisce, in quel perpetuo senso di straniamento fuori da ogni dimensione temporale, costruito da chi vive il mondo e la vita con fiducia, quasi come un “alieno”, come ama definirsi lo stesso Kaurismäki, guardando con devozione ad un realismo magico di zavattiana memoria, che riesce a riformulare in una chiave del tutto personale.
Premiato al festival di Berlino 2017 con l’Orso d’argento per la miglior regia, L’altro volto della speranza è il suo 17esimo film, ed è il secondo tassello di un discorso sulla migrazione a cui il regista ci aveva già introdotto nel 2011 con quel suo favoloso Miracolo a Le Havre (e anche in questo c’è forse già nel titolo un omaggio a quella pietra miliare firmata De Sica-Zavattini che è Miracolo a Milano).
L’altro volto della speranza è la storia di un incontro, ambientato a Helsinki, tra il cinquantenne Wikhström, che ha deciso di cambiare vita lasciando la moglie e il lavoro di venditore di camicie per rigiocarsi tutti i propri averi a poker e investire le vincite in un ristorante di periferia, e del giovane rifugiato siriano Khaled che, ritrovandosi bloccato per caso nella capitale finlandese, vede respinta la sua domanda di asilo politico ma decide comunque di rimanere clandestinamente in Finlandia. Khaled, che ha visto la propria famiglia morire sotto i bombardamenti di Aleppo, cerca disperatamente notizie della sorella dispersa in Europa. Una sera, Wikhström lo trova nel cortile del suo ristorante malconcio e, toccato dalla sua storia, decide di offrirgli un lavoro.
Sin dalle prime immagini, con degli splendidi primi piani fissi e una straniante recitazione antinaturalistica, il film ci proietta in quella malinconica dimensione di forte stampo kaurismäkiano, presentandoci Khaled, di cui all’inizio ci lascia scorgere solo gli occhi in mezzo a un mucchio di carbone nero, come vera allegoria di un concetto di estraneità in cui è costretto a stare il migrante, in quella solitudine che è simile a quella che prova il regista, un emarginato tra gli emarginati, massimo esponente di un cinema distante da quello di consumo.
Anche stavolta Kaurismäki si avvale dell’ausilio di quei collaboratori e “amici” che ha fatto conoscere al mondo intero attraverso i suoi film nel corso del tempo, a partire dall’elegante fotografia di Timo Salminen, e dalle essenziali e colorate scenografie di Markku Pätilä, alle interpretazioni del magistrale Sakari Kuosmanen (attore feticcio dello stesso Kaurismäki) nei panni di Wikhström, degli ottimi Janne Hyytiäinen e Ilkka Koivula (anche loro già diretti in passato) che rispettivamente sono il cuoco Nyrhinen e il portiere Calamnius, e dell’esordiente e stupefacente Sherwan Haji nel ruolo di Khaled, tutti estremamente uniti in quel patto di fedeltà ad una poetica cui sembrano prendere parte andando oltre se stessi, e diventando gli stessi personaggi che Kaurismäki costruisce su di loro. Protagonisti che vivono in una dimensione dove l’ironia regna sovrana; un’ironia che non contempla la risata, ma la supera, ed è fatta di gag geniali dove si parla con gli sguardi, e dove ogni personaggio trova negli occhi dell’altro quello che di più intimo ha dentro, e lo custodisce come un segreto che non svela mai, che non mostra mai a nessuno, di cui non parla mai, che non cambia, che non pensa, ma che semplicemente vive. Ne viene fuori un gioiello di rara bellezza, uno sfoggio di garbo, l’ennesimo, che dà lustro e rispettabilità ad un percorso cinematografico fatto di 16 tasselli (prima di questo) che sembrano avere un filo inveterato che li congiunge tutti: l’umanità.
La stessa che viene messa in dubbio, di fronte a quella che sembra essere una condanna, “nascere nel posto sbagliato al momento sbagliato”, che rappresenta un ostacolo, un dramma, una paura. Chi siamo noi per giudicare? Il mondo che stiamo vivendo è tanto lontano da quello che qualche decina di anni fa ha finito per sterminare milioni di persone? E “che fine ha fatto la nostra umanità?”
Kaurismäki indica come improrogabile soluzione la strada della tolleranza, quella vera, non quella che viene dalle autorità, che respingono, ma quella che arriva dalla gente, le persone che soffrono, escluse a loro volta, e che accolgono il diverso (tranne quelli radicalizzati in fondamenti politici che si oppongono all’integrazione per questioni ideologiche e razziali). È questo l’altro volto della speranza: un escluso che aiuta un altro escluso. Tutto questo, il regista finlandese lo fa rimanendo fedele in toto a quell’universo di solidarietà che si rassomiglia di opera in opera ai limiti della maniacalità, e a quella quota costantemente alta che contraddistingue le sue opere.
Attenzione però! Nessun happy ending. Kaurismäki non vende sogni, e le sue storie colmano spesso nel dramma, stavolta addolcito dal dubbio. Sembra una contraddizione, e forse lo è, ma è il frutto di un cinismo e di una stravaganza che appartengono ad un autore fuori dal comune, che ama la contraddizione, produttore e autore di film, che rifiuta premi, che si presenta ubriaco a tante interviste, non nascondendo neanche un attimo il suo amore per la bottiglia. Kaurismäki è uno dei pochi a parlare di una tematica tanto urgente come quella dell’immigrazione in termini umani prima di tutto, rendendoci partecipi di una presa di coscienza forte grazie all’idea di collaborazione e di rispetto che ci propone, a favore di una soluzione unica e ideale di convivenza reciproca, e lo fa attraverso un’opera dall’alto valore civico, in un momento storico tremendo, dove la finzione è sovrastata dall’attualità, ma dove l’attualità ha comunque bisogno di finzioni così per sognare un mondo migliore, anche solo per 98 meravigliosi minuti.
Luca Taiuti