Totò ed io: il ricordo di Carlo Croccolo [INTERVISTA]
Il Nuovo Teatro Sancarluccio ha festeggiato la Pasqua con un ospite d’eccezione: Carlo Croccolo che, il 15 e il 16 aprile, ha portato in scena sul palco di via San Pasquale il suo personale racconto di Totò, tra ricordi, aneddoti, poesia e musica.
“Un Gian Burrasca con un grande talento”, “tenero” e “folle”, “un eterno giullare” “dolcissimo” e “spregiudicato” che “amava affascinare”: così, chi l’ha conosciuto, chi ha lavorato e ha condiviso una parte della propria vita con lui, descrive Carlo Croccolo. Le testimonianze video, materiale di un documentario in fieri sull’attore, proiettano il ritratto di un artista che, a novant’ anni compiuti ai primi di aprile, non si è sottratto alla volontà di ricordare ed omaggiare Totò. Molte, infatti, sono le iniziative, da aprile a luglio, per il memoriale della morte dell’artista-principe avvenuta a Roma il 15 aprile del 1967, ma il racconto di Croccolo che, insieme alla moglie, l’attrice Daniela Cenciotti, ha messo in scena lo spettacolo Totò ed io al Nuovo Teatro Sancarluccio, ha qualcosa in più. Le sue parole conservano la tenerezza di chi ha conosciuto Totò, di chi l’ha stimato profondamente e ne avverte l’assordante mancanza. Rimbalzando dai video alla lettura dei frammenti del libro che lo stesso Croccolo sta scrivendo, e dalla poesia alla musica, la pièce descrive il rapporto che ha legato e ancora lega l’attore a Totò. Vengono ricordati gli inizi della sua carriera e il suo primo incontro con lui che gli fece scegliere definitivamente il percorso da attore e lo rese da “dilettante” che non ha mai rispettato le regole, quale Croccolo si definisce, a professionista. La memoria riporta all’esperienza in Canada, al primo doppiaggio, col film La legge è legge, in francese, e al modo di lavorare del nobile comico, devoto all’arte e per nulla avvezzo alla pratica dell’improvvisazione, come invece molti ritengono. Carlo Croccolo racconta che, chiamati a raccolta nella roulotte di Totò, quest’ultimo insieme a Mario Castellani, riscriveva il copione sotto gli occhi degli attori, attenti a prender nota per poi recitarlo di lì a poco, come era stato modificato da uno dei comici più grandi che ha conosciuto il secolo scorso, secondo un preciso insegnamento: “Quando si lavora, non bisogna divertirsi, ma far divertire”. Totò ed io disegna uno spettacolo che è soprattutto una lunga chiacchierata tra amici e per noi che abbiamo avuto il piacere d’intervistare l’artista, la chiacchierata-spettacolo è proseguita dietro le quinte, nel piccolo camerino del Teatro Sancarluccio, scenario alle nostre domande.
Ha iniziato a recitare giovanissimo, ricorda un episodio, in particolare, legato agli inizi della sua carriera?
Ho cominciato a recitare verso gli otto-nove anni a Bagnara Calabra. Lì c’era mio zio Carmelo che, scherzosamente, mi chiamava: «Capocomico». Io e mio fratello, infatti, inventavamo e improvvisavamo delle gag per divertire i miei zii e loro effettivamente si divertivano. Poi a dodici anni, sempre lì, a Bagnara Calabra, venne una compagnia siciliana, la compagnia Miraglia, che cercava un ragazzino per la parte del figlio di Turiddu in Cavalleria Rusticana. La compagnia Miraglia lavorava a soggetto, ti dava un canovaccio, e poi si andava in scena e si improvvisava. È stata una bellissima palestra d’attore e loro avrebbero voluto portarmi in giro, in tournée, ma mia madre non volle. Dopo questa esperienza, mi hanno provato con un testo molto brillante di Testori. E andai bene, tanto che la compagnia si divertì molto, ma quando partì da Bagnara Calabra, io non la seguii. Mia madre non volle, lei non ha mai amato che io facessi l’attore, voleva, invece, che io diventassi un medico e infatti cominciai a studiare medicina.
Cosa l’ha spinta a continuare col mestiere dell’attore, prima e cosa la spinge a stare sul palco, oggi?
Oggi ormai è l’unica cosa che so fare e mi chiamano per questo.
Quando ero ragazzo, i soldi. Tutte le mie storie sono legate alle donne che ho amato. Molto giovane ho seguito una ragazza inglese a Roma e in tre giorni, tra ristoranti e locali, finii tutti i soldi. Così sono andato alla radio dove c’era Barbarisi, un regista col quale avevo lavorato a Radio Napoli qualche volta. In quei giorni la radio era in cerca di un lettore. E cominciai a lavorare per loro. Dopo un anno, girando anche qualche film, guadagnavo in un mese quello che mia madre guadagnava in due anni, facendo l’insegnante di storia e filosofia. È stato così che ho deciso di fare l’attore. Ma poi ho fatto tanto altro: lo scultore, sono stato in Canada, ho fatto l’operatore, ho fatto la pubblicità, ho girato cortometraggi, poi due film come regista, quindi la mia carriera non è stata solo quella d’attore. Come attore, dicono che sono bravo e siccome lo dicono gli altri lo ammetto pure io, ma io non sento tutta questa bravura. Io mi sento proprio come disse Totò la prima volta che c’incontrammo: «La faccia da fesso ce l’hai, vediamo il resto». È la faccia da fesso che mi ha portato avanti, quindi, non mi stimo molto come attore, ma mi piaccio, o forse è meglio dire che mi sopporto.
Nella sua carriera ha attraversato vari codici artistici: teatro, cinema e da ultimo anche la televisione, cosa si sente di dire ad un giovane che desidera vivere un percorso d’ attore a tutto tondo, seguendo il suo esempio?
Di cambiare Paese, di andare in America, in Francia, in Germania, perché in Italia è impossibile fare questo mestiere; l’Italia non è un Paese che dà molte opportunità per fare l’attore.
Ha lavorato molto con Totò, al suo fianco prima come attore, poi come suo doppiatore. A cinquanta anni dalla sua scomparsa, cosa le manca di Totò-artista e di Totò-uomo?
Mi manca lui, e non solo. Mi manca il fatto che mentre io ho avuto tante soddisfazioni nella mia carriera, come il David di Donatello e il Ciak d’oro, Totò non ha avuto niente. Oggi lo esaltano, ma perché non l’hanno fatto cinquanta anni fa? Lo sapevano tutti che era bravo, era immenso, Totò è il più grande attore comico del secolo scorso e sembra se ne siano accorti solo ora. Se ne dovevano accorgere un po’ prima.
A tal proposito, nonostante le molte e diverse iniziative, che da aprile a luglio ricorderanno Totò, alla città di Napoli, però, manca ancora un museo dedicato all’artista, qual è la sua opinione in merito?
Il silenzio è la migliore risposta, perché non c’è niente da dire. Totò non ha avuto niente da nessuno, soprattutto da Napoli e soprattutto da quelli che lo amavano. Era solo e questa sua solitudine lo portava a chiudersi nel suo pensatoio a scrivere poesie, delle poesie bellissime, che fanno scoprire Totò, più grande come poeta che come attore, però, certo, questo non lo rendeva felice.
La solitudine di Totò è racchiusa nel riflesso degli occhi lucidi, pieni di malinconia, di Carlo Croccolo, un uomo umile, semplice e sincero che ama il mare e la sua pace; una solitudine che descrive la condizione umana e che trova eco, ancora una volta, nelle parole del poeta Totò, recitate dall’amico Carlo, a conclusione dello spettacolo: «Io vi capisco… sono dispiaciuto… ma p’ ‘e metalli ‘ a morte nun esiste; invece ‘ e n’ommo, quanno se n’è ghiuto manco ‘na cafettera se po’ ffa’!»
Antonella D’Arco
Nuovo Teatro Sancarluccio
Via S. Pasquale, 49 – 80121 Napoli
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