La morte di Danton, ovvero la morte della rivoluzione
È tratto dal dramma storico scritto da Georg Büchner nel 1835, lo spettacolo di cui è protagonista Giuseppe Battiston, per la regia di Mario Martone, in scena al Teatro Politeama di Napoli, dal 26 aprile al 7 maggio, per il cartellone dello Stabile partenopeo.
«Stavo studiando la storia della rivoluzione. E mi sentivo come annientato dall’orribile fatalità della storia. Nella natura umana trovo una uguaglianza terribile, nei rapporti umani una violenza inevitabile, concessa a tutti e a nessuno». Così scriveva il giovane autore tedesco Georg Büchner due anni prima della conclusione del manoscritto La morte di Danton, intuendo già la sua fuga, frettolosa e nervosa, di notte, in preda al panico, con la paura di poter essere arrestato per la sua attività politica impetuosa, che aveva come oggetto l’affermazione della libertà. Pensieri e tormenti che trovano una meditazione profonda nella sua opera, nella quale la dissertazione filosofica sulla rivoluzione e sulla sua impossibilità di portarla a compimento passa attraverso le voci e i corpi, fatti vivere in scena. D’altronde, parafrasando dall’epistolario del drammaturgo, si legge che l’autore drammatico non è altro che uno storico, anzi è al di sopra di esso, perché ricrea la storia una seconda volta, introducendoci nella vita di un’epoca, fornendo caratteri, invece di caratteristiche e personaggi, invece di descrizioni.
A dare voce e corpo ai personaggi che configurano due visioni contrasti del sogno rivoluzionario, nella messinscena di Mario Martone, sono un beffardo Giuseppe Battiston-Danton, capace di slanci appassionati e veri nella dimidiata e contraddittoria dimensione di uomo e di politico, e un lucido e incisivo Paolo Pierobon, che soprattutto nel primo atto, ritrae un intenso Robespierre, l’ “Incorruttibile”, manicheo nel modo in cui percepisce il suo disegno politico: “L’arma della repubblica è il terrore, la forza della repubblica è la virtù”.
Robespierre, nuovo Bruto, il salvatore della repubblica, intriso di un sentimento religioso, al limite del bigottismo, in cui manifesta tutta la sua forza e la sua debolezza, confessa le sue inquietudini davanti all’inginocchiatoio, simbolo di redenzione e prefigurazione della morte violenta con cui la Storia lo accoglierà. E come Bruto che aveva in Cassio il suo fido consigliere, così Robespierre placa i suoi dubbi nel livido Saint-Just, in scena un bravo Fausto Cabra. Lui, il discepolo dell’Incorruttibile è la Lady Macbeth che insinua nella mente del suo signore, la ferma e feroce convinzione che la morte e il sangue siano lo strumento della libertà. Tra le rovine di un mondo classico, ideale tanto da raggiungere quanto da rifuggire, si muove anche Camille Desmoulins, amico d’infanzia di Robespierre, ma sodale politico di Danton. Lino Musella tratteggia un umanissimo personaggio, puro nelle idee, pieno d’amore per la moglie Lucille e il figlio e perciò impaurito dalla lama del boia, sorte designata anche a lui, come a Danton.
La fragilità accomuna il coro dei protagonisti, composto da un nutrito cast di circa trenta attori (tra cui Michelangelo Dalisi, Francesco Di Leva, Ernesto Mahieux, Paolo Mazzarelli) nella visione registica di Martone. Fragile è la prostituta (Maria Roveran) che in un’intima confessione del suo primo tragico amore, descrive la misera condizione umana; fragile è Julie (Iaia Forte), la sposa di Danton che si uccide, prima di vedere eseguita la condanna del marito; fragile è Legendre (Giovanni Calcagno) che non sa imporsi nel Comitato di salute pubblica; fragile è Lucille (Irene Petris) che non potendo cambiare il destino di una morte incombente, va incontro ad esso.
È una fragilità che interessa gli uomini tutti, in quanto non caratteristica personale, ma dimensione esistenziale, «impossibilità di invertire la rotta assegnata (da Dio? dalla Natura? dal Nulla?) agli esseri umani, nonché di porre rimedio all’ingiustizia che da sempre regna sovrana», come dichiara Mario Martone. Il fallimento della rivoluzione si manifesta nella sua ottusa caparbietà di non cercare un compromesso, di non tener conto della realtà contingente che si è stabilita e con cui bisogna fare i conti, senza assurgere gli ideali ad assiomi assoluti. Danton è il simbolo vivo di questa incomunicabilità tra sordi che produce solo dolore. “Si può negare il male, ma non il dolore”, ammonisce il prigioniero Payne (in scena Paolo Graziosi), ed ha ragione, perché la Marsigliese, che la regia ci restituisce in una bella quanto suggestiva immagine dei popolani il cui volto è negato dal sipario a mezz’aria, non è altro che l’eco del dolore dei corpi trucidati nei massacri del settembre 1792 e che non danno pace a Danton. La sofferenza e la fame del popolo si fanno sentire a gran voce, invadendo la platea, compartecipe della rivoluzione francese, napoletana o di qualsiasi altra parte del mondo. Ad illuminare i sogni e le illusioni del cambiamento, il disegno di Pasquale Mari che insieme alle scene dello stesso Martone crea dei tableaux vivants, di caravaggesca memoria, strumenti di un potente montaggio visivo. I tendaggi rosso scarlatto che si aprono e si chiudono e restano sospesi a incorniciare i quadri, si aprono e si chiudono al pari della tendina dell’otturatore di una macchina fotografica, pronta a fermare la luce migliore, quella che rischiari le menti e che, dalla miseria, faccia nascere un senso pietoso di solidarietà umana, come auspicava Leopardi, tanto caro alla regia, negli stessi anni in cui scriveva Büchner.
Antonella D’Arco
Teatro Politeama
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