Ettore Nigro: “Vivere ad arte si può” [INTERVISTA]
Ex studente di chimica, oggi si dedica a tempo pieno al suo lavoro di attore e regista e alla pedagogia teatrale, in cerca del “punto zero” da cui tutto ha inizio.
Ettore Nigro, attore e regista napoletano formatosi presso l’“Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico” di Roma, attualmente insegnante del laboratorio teatrale “Asylum Anteatro Ai Vergini”, fondato insieme con Massimo Maraviglia e Caterina Leone (entrambi docenti di Asylum) e con il poeta Mimmo Grasso, ha cominciato a “fare teatro” mentre lasciava la facoltà di chimica a cui si era iscritto dopo la maturità, “quando ho capito che avrei voluto indagare l’umano e non passare la vita con provette alla luce di neon”.
Il prossimo 6 maggio sarà in scena a Portici, al Teatro don Peppe Diana, con La masa madre, uno spettacolo “nato insieme con mia figlia” nel novembre 2013. È un inno alla resistenza alimentare, contro l’industrializzazione selvaggia dei processi alimentari che porta alla perdita delle tradizioni gastronomiche, contro la manipolazione dei cibi e dell’essere umano (scelto per tale motivazione da Legambiente e Coldiretti della regione Veneto per la lotta la biocidio).
La masa madre nasce dall’intuizione dell’attore Dario Tamiazzo (compagno di accademia) che, durante la sua permanenza a Buenos Aires, ha studiato e approfondito il mondo dei fornai porteños e l’uso della pasta madre (’o criscito, in napoletano), lievito naturale che si tramanda di generazione in generazione nelle famiglie dei fornai. Tornato in Italia, Tamiazzo costruisce un primo studio della messinscena; l’incontro fortunato tra i due attori dà forma definitiva alla stessa e Ettore Nigro ne firma la regia. I due amici poi si dividono e ognuno, dal 2014, porta avanti l’allestimento in giro per il mondo: Parigi, Witten, Madrid, Zurigo, Bogotà, Karacas e in Italia all’Expo di Milano, Napoli, Padova, prossima tappa Roma.
Cosa spinge a riportare in scena La Masa Madre anche a distanza di anni?
La masa madre racconta come essere modernamente nuovi, come andare avanti rispetto a quello che abbiano dimenticato. C’è bisogno di riprendere il percorso che abbiamo abbandonato. Non è un ritorno alle origini, ma una riscoperta.
Lo chiamo “uno spettacolo fortunato” per il numero esorbitante di repliche e richieste, dovuto forse al fatto che aderisce in senso naturale a ciò cui l’attualità sta tendendo: attualizzare un’antichità. Racconta di Sante, un ragazzo che vuole diventare fornaio perché ha un sogno: fare il pane per tutti, ma si ritrova a dover lottare per mantenere viva la pasta madre che ha ereditato dal nonno fornaio. Parte alla volta di Buenos Aires dove inizia a lavorare in un panificio e a combattere insieme con i compagni per salvaguardare la naturalezza del pane e distribuirlo a tutti, segnando in tal modo la storia politica e gastronomica dell’Argentina.
Il tempo de La Masa Madre non è terminato perché molti mi chiedono ancora di portarlo in scena. È inoltre uno spettacolo a cui tengo molto perché parla del mio ideale di vita, non solo del mio ideale di teatro, c’è la mia visione delle cose: semplicità, senso di offerta e sacralità della vita. Il panadero stesso infatti si fa pasta madre.
Chi è per te l’Attore?
È un uomo straordinariamente normale, colui che sperimenta l’assenza di nevrosi. È un artigiano dell’essere, colui che compie azioni ritornando al punto zero, riuscendo così a ricostruire l’altro. Oggi deve essere un uomo consapevole, in scena sarebbe interessante vedere una consapevolezza di sé.
Il teatro è un’arte curativa, perché nella sua forma finale – nell’interazione col pubblico – dovrebbe curare i malanni. A me interessa il processo rappresentato perché quando viene visto è omeopatico. Cura il veleno del mondo attraverso il veleno stesso che con la rappresentazione è scorporato della sua componente matericamente dannosa. Così come attraverso l’arte drammatica si può imparare a vivere ad arte senza dover necessariamente fare l’attore.
Oltre a lavorare come attore e regista, molto spesso, nella costruzione di uno spettacolo, sei impegnato come disegnatore di luci. Qual è l’importanza della luce in scena?
Noi percepiamo il mondo e le cose dal modo in cui esse vengono colpite dalla luce, come – ad esempio – l’incarnato di una persona, il taglio su un volto. Cambiare la luce intorno ad un attore significa sostenerlo e condurlo nella giusta direzione dello spettacolo. La luce ha infatti una sua drammaturgia, è una riscrittura del testo in termini illuminotecnici. Ed ha una sua significazione: in scena potrebbe anche non esserci nessuno ma c’è comunque , attraverso i campi di luce, un racconto. Mi piace molto lavorare sui passaggi di luci perché mettono in evidenza i passaggi di stato dell’attore: si va così dalla rabbia alla malinconia alla tristezza; il cambio della luce è il respiro del mondo.
Sei anche impegnato nella pedagogia teatrale. Qual è il focus dei tuoi insegnamenti e come è declinato in una città complessa come Napoli?
Dopo l’accademia, tornato a Napoli e mosso da uno spirito di condivisione, ho cercato subito di trovare uno spazio da condividere con altri colleghi dove poter trasmettere ai giovani le competenze acquisite durante gli anni dell’Accademia. La mia pedagogia è basata su un’idea semplice: ridare il teatro all’attore, ovvero ridare all’attore la sua centralità nel teatro e riconciliare l’uomo/attore con il “punto zero”, il luogo dove nasce l’atto creativo; solo in questo modo si può aiutarlo a trovare il suo equilibrio e a ritrovare il centro. Questo è stato il terreno di incontro con il regista Massimo Maraviglia e la trainer Caterina Leone, e dal 2010 cerchiamo di affinare la pedagogia, nel nostro laboratorio, in questa direzione.
Oggi, però, riscontro l’assenza di un luogo dove gli allievi-attori possano essere traghettati verso una “autonomia professionale” e affinare il lavoro intrapreso nei già validi laboratori. È come se ci fosse un vuoto: o c’è l’accademia o c’è un laboratorio. Da questa considerazione nasce il corso “L’attore al centro”, che da pochi mesi sto tenendo con altri colleghi: Michele Schiano di Cola, Fabrizio Varriale e Piegiuseppe Francione, proprio nella sede dell’Asylum Anteatro ai Vergini, e vuole essere l’estensione naturale per chi dopo un laboratorio decida che fare teatro diventi il suo campo di indagine e professione.
Inoltre, negli ultimi quattro anni sto mettendo in relazione pedagogia teatrale e Buddismo tibetano; sono infatti riuscito a trovare numerosi punti di contatto. Lavorare in questo senso significa per me offrire strumenti per la decodifica dei fenomeni. Ora però non mi dilungo in un discorso complesso da sintetizzare.
Ci racconti un aneddoto che dia ragione al tuo modus operandi?
Una mia allieva che ora vive in Irlanda mi raccontava che aveva utilizzato, durante il parto, gli esercizi fatti in un laboratorio con me. È questo che intendo quando affermo che “vivere ad arte” possa tornare utile a tutti nella vita e in ogni momento della vita.
In generale, ricevo conferma del buon funzionamento della mia pedagogia dal fatto che molti ex allievi ritornano per consigli o dal fatto che molte persone sono indirizzate a me, anche “semplicemente per attraversare la vita”: spesso non si credono capaci di puntare su se stessi, per cui bisogna dirglielo; in questo senso il teatro non è un concetto, ma è un attraversamento e si va in sala prove per esperire e per attraversare la vita.
Cosa senti di dire ai giovani che vogliono intraprendere la carriera dell’attore?
È un punto di crisi. A volte mi chiedo: “Sto insegnando teatro per quale lavoro, dal momento che il mercato teatrale continua a subire tagli finanziari?”. Eppure le richieste dei giovani di acquisire una competenza teatrale sono sempre maggiori. È un lavoro basato su guadagni esigui, spesso si è costretti a fare altri lavori per vivere rischiando così di cadere in una schizofrenia. Per questo bisogna, se realmente si sceglie questo mestiere, mantenere prima di tutto nervi saldi e grande calma interiore. Da qui la necessità di immettere nella pedagogia teatrale elementi che possano aiutare, se si può dire così, “a vivere ad arte” qualunque sia il percorso lavorativo intrapreso.
Qual è invece lo stato dell’arte del teatro?
Gode di ottima salute perché siamo in un momento di crisi. Il teatro stesso, infatti, parla di sé nel tentativo di curarsi, lo dimostrano gli ultimi allestimenti teatrali, come Minetti con Eros Pagni, Vocazione di Danio Manfredini ed Elvira con Tony Servillo, che svelano allo spettatore le dinamiche interne, e spesso travagliate, che abitano l’attore. Pure se ricca e pulsante, l’arte drammatica trova ostacolo nell’assenza/carenza di una politica culturale adeguata.
C’è una mancanza di ascolto oppure c’è un surplus di produzione?
Io credo più mancanza di ascolto. “C’è una massoneria culturale” per riprendere le parole del regista Carlo Cerciello e ci sono delle logiche ancora nascoste nella politica culturale che fanno sì che non ci sia una collaborazione di tutto il sistema. Credo che il “problema” stia nel fatto che la cultura rende un uomo libero, consapevole e pensante, per cui spettacoli che risvegliano la coscienza sono una minaccia; per questo in Italia si sostiene l’appiattamento, mentre invece occorrerebbe una ri-educazione teatrale, già a partire dalle aule scolastiche.
Chi è il tuo mentore?
Mi innamorai del teatro quando iniziai a vedere gli spettacoli di Eimuntas Nekrošius e il suo uso dei simboli in scena che accede a un livello profondo e agisce sul pubblico senza passare per una comprensione razionale. Da lui ho imparato che l’esperienza interiore, spesso indicibile, arricchisce più di una ragionata comprensione.
Maria Anna Foglia