“Gli onesti della banda”… siamo noi! [NTF17]
Nel rione Villa di San Giovanni a Teduccio la sceneggiatura di Age e Scarpelli diventa drammaturgia per mano di Diego de Silva e Giuseppe Miale di Mauro e l’intero quartiere si trasforma in teatro a cielo aperto con la compagnia del Nest.
Riportare in vita film di indubbio successo dopo più di 60 anni e farli passare dal grande schermo alla messinscena teatrale è un’operazione non facile soprattutto se si vuole dare nuova linfa a delle pietre miliari della cinematografia italiana. Ma questa operazione, che per molti sarebbe stata una scommessa con margini di rischio, diventa l’ennesimo encomiabile lavoro di un gruppo che si conferma tra i migliori del panorama teatrale nazionale – e peccato che per chi non ha ancora avuto modo di conoscerli.
Gli onesti della banda è una libera riscrittura teatrale del film la Banda degli onesti del 1956, firmata da Diego de Silva e Giuseppe Miale di Mauro che ne ha curato anche la regia, andato in scena il 28 (replica poi sospesa per pioggia) e 29 giugno nella sezione progetti speciali del Napoli Teatro Festival Italia 2017. E proprio “speciale” è l’operazione messa a punto dalla Compagnia Nest dell’omonimo Teatro di San Giovanni a Teduccio perché arricchita dalla partecipazione non solo dei ragazzi della scuola #Giovani’ONest, ma in particolare dell’intero quartiere della periferia est di Napoli. Il contesto in cui è andato in scena lo spettacolo, infatti, è il Cortile della “46” del Rione Villa di San Giovanni, uno spazio ampio e non sapientemente sfruttato in una zona popolosa e popolare sconosciuta e disdegnata per la maggior parte del centro città. Ma grazie alla radicata presenza della compagnia sul territorio e alla specificità intrinseca della drammaturgia, l’ambientazione scelta non poteva essere migliore: un cortile a fare da naturale palco all’aperto, i balconi trasformati per una sera in palchi di vario ordine, e gli abitanti nel ruolo di comparse all’interno dello spettacolo.
Per chi non avesse mai visto questo classico del cinema nostrano, vale la pena ricordare che La banda degli onesti è un film diretto da Camillo Mastrocinque, basato su una sceneggiatura di Age&Scarpelli, con protagonisti Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia che rispettivamente nei panni di un portiere napoletano di un condominio, un tipografo e un pittore mettono su una banda di falsari di banconote per far fronte ai loro debiti. E trattasi della pellicola che ha segnato il sodalizio artistico tra Totò e Peppino dando vita a quella che è certo la più popolare e sacra coppia-simbolo della cultura italiana.
Confrontarsi con testi, ruoli e attori così noti e conosciuti, pertanto, non era compito facile per gli autori e il cast, soprattutto in quanto napoletani: facile il rischio di cadere in cliché e stereotipi; ma nel caso del’adattamento in questione ciò non è avvenuto per nessuno dei personaggi in scena.
Mantenuti i ruoli principali, ovvero il portiere Tonino e l’amico tipografo Peppino – in origine Totò e Peppino qui rispettivamente Adriano Pantaleo e Giuseppe Gaudino – una nuova e maggiore importanza è stata data al ragionier Casoria amministratore del Palazzo che qui diventa anche il terzo membro della banda – Francesco di Leva -, alla moglie del portiere Angela – Irene Grasso – al finanziere Michele che non è più il figlio ma il fratello del portiere – Ivan Castiglione – e alla fidanzata di quest’ultimo Giulia, sorella di Peppino – Luana Pantaleo -, così come introdotto ex novo è stato il boss della zona Don Mimmuccio – Ernesto Mahieux.
In linea con il curato lavoro di adattamento è lo studio che ogni attore ha compiuto per il proprio personaggio al quale ha donato nuova vita infondendogli aspetti della propria personalità non ancora svelati al pubblico, e creando una simbiosi perfetta che enfatizza le peculiarità del personaggio e le abilità espressive di ciascun interprete: il portiere è ora un filosofo amante della musica classica (secondo gli occhi di tutti triste e depresso) che scrive un romanzo (per tutti un giallo) ed è sposato con una bionda da far girar la testa; attento all’uso appropriato dei vocaboli che reputa importanti, Pantaleo riesce a dargli – nei gesti e nella voce – non solo quell’aria un po’ secchiona e distaccata dalla realtà ma anche il ritmo giusto di chi basa tutto il proprio modo di essere sulle parole; il tipografo, d’altro canto, è un sempliciotto vanitoso e rispettoso delle gerarchie del quartiere ma con grandi idee per la testa, e Gaudino è preciso nel rendere ciò ma soprattutto nel creare con involontari giochi di parole dei veri e propri siparietti comici col suo “compare” di scena; un vero showman con una truffa sempre tra le mani, è il ragionier Casoria che nell’immaginario degli autori, per stile e parlata, ricorda un po’ l’avvocato Saul Goodman della serie TV Breaking Bad, ed è reso irresistibilmente comico dal padrone di casa Francesco di Leva tanto da far auspicare di veder realizzato uno spin off proprio su questo fortunato abbinamento personaggio/attore.
Non da meno gli altri protagonisti: a partire dalle due donne, Irene Grasso e Luana Pantaleo, che dipingono perfettamente la tipologia di donna insoddisfatta e sognatrice, spesso accelerata e isterica che tormenta l’uomo che le sta accanto con cambi di tono e monologhi serratissimi; proseguendo con il finanziare tratteggiato come lo stereotipo del guappo di quartiere e che Castiglione sa rendere ed arricchire di sfumature anche solo con la presenza scenica e le movenze di chi su un palco è a suo agio; per terminare con Mahieux, la cui partecipazione straordinaria, sottolineata anche dalle musiche originali di Mariano Bellopede ad ogni suo arrivo, regala un cameo significativo all’interno degli sviluppi della storia.
Ad evidenziare e valorizzare ulteriormente il lavoro complessivo di squadra, l’assenza totale di quinte, che costringe tutti ad essere sempre visibili dalla platea e in luce anche quando a riposo con conseguente impossibilità a cedere alla tensione e distrazione, e l’essenzialità della scenografia di Luigi Ferrigno che, combinandosi a quella urbana preesistente, definisce con efficacia i luoghi emblema della vicenda – portineria e tipografia – trasformandosi poi nel terzo luogo – la prigione – che in questa rivisitazione diventa la conseguenza della scelta finale dei protagonisti.
L’epilogo della vicenda, infatti, è completamente diverso dal film e assume un valore molto più didascalico ed esemplare: al bivio tra il conformarsi ad una realtà fuorilegge sposandosi con quegli esponenti della società che con i loro modi di fare arrecano solo danno alla comunità e al singolo cittadino, e l’essere uomini con la coscienza pulita, i due amici scelgono di essere “liberi” da ricatti e reati. È proprio questo aspetto del resto ciò sui cui Miale di Mauro intende fermare – riuscendoci – l’attenzione: sul confine, in alcuni contesti molto sottile, tra legalità e illegalità, e il ruolo della cultura, che se arricchita da una sapiente leggerezza calviniana, può gradualmente diventare un «viatico per risanare il tessuto» e «un modo nuovo di affondare l’occhio nel reale, di raccontare i meccanismi malavitosi che attanagliano la società, facendo in modo che il pubblico percepisca certe dinamiche come universali».
E dall’esito dei riscontri e degli applausi ricevuti anche durante la replica bagnata dalla pioggia incessante, lo sforzo sembra essere stato ripagato, mentre come nani sulle spalle di giganti, la compagnia con l’impegno e la passione profusa da tutti i suoi componenti, e le sue scelte stilistiche, che sperimentano sempre nuove linguaggi per declinare un unico verbo, quello teatrale, continua a guardare lontano, già alla prossima sfida. Tra qualità e impegno. Tra centro e periferia.
Irene Bonadies
Napoli Teatro Festival
Info e contatti: www.napoliteatrofestival.it