Vinicio Capossela e Mimmo Borrelli: connubio di rime e musica ai piedi del vulcano [INTERVISTA]
Con l’evento-concerto “Ludis”, al Festival delle Ville Vesuviane, l’incontro in scena tra il cantautore irpino e il drammaturgo flegreo, per “cuntare” insieme l’Arte e il Vesuvio in un parossismo di incanto.
Ludis, ovvero giocare con la musica, le parole, i luoghi, l’Arte.
L’atto unico di Vinicio Capossela ruota attorno al concetto di gioco, e lo fa con l’ecletticità che è propria dell’artista nato ad Hannover, in una carrellata di pezzi che a partire dall’ultimo lavoro discografico – Canzoni della cupa – a ritroso arriva ai brani della sua prima produzione, in un turbinio di festa e riflessioni che da Partenope al Vesuvio tocca il mare, la terra e il fuoco, quello distruttivo che da giorni infiamma e brucia la “montagna” simbolo della terra campana. Quella stessa montagna alle cui pendici, l’evento immaginato dal cantautore trova ospitalità, in simbiosi con il giardini della Villa Favorita di Ercolano che lo accoglie per il Festival delle Ville Vesuviane, e a cui Capossela dedica una struggente Ovunque proteggi.
Proprio perché trattasi di gioco, però, salire su una giostra è l’invito che il cantautore rivolge al suo pubblico, senza che una scaletta premeditata detti l’ordine delle canzoni da suonare, ma lasciando che sia una imponente ruota posta sulla sinistra del palco a sceglierle, sotto il tocco magico di un “cuntista” d’eccezione: Mimmo Borrelli. E allora ecco ogni pezzo essere introdotto da una quartina del drammaturgo, regista e attore flegreo, e le sue parole in rima traghettare a quelle in musica, in un connubio che nato “per gioco” solo poche ore prima dell’inizio del concerto, si dimostra perfetto. E luogo ideale, sul finire, dopo i balli, i cori, i ritmi sfrenati, per lasciare spazio al silenzio chiesto da Borrelli ed accogliere – smessi i panni del guitto e indossati quelli del narrattore – la straordinaria preghiera-mantra, d’amore e di invettive, Napucalisse, nel solco dell’urlo di indignazione e al contempo protezione sollevato, ancora una volta, con forza, verso il Vesuvio oltraggiato.
Al termine, abbiamo proposto a Mimmo Borrelli di raccontarci Capossela e questo che segue è quanto, con generosità, ci ha restituito:
Quando per la prima volta Mimmo Borrelli incontra Vinicio Capossela e come nasce, poi, l’idea di collaborare sulla scena ?
Ci sono due incontri, il primo da fan, a 19 anni ascoltando per la prima volta da un amico due dischi meravigliosi – Camera a sud (1994) e Il ballo di San Vito (1996) – e da lì è iniziata una sorta di grande passione nei confronti di questo cantautore che ho sempre definito come un cantastorie di romanzi: ogni sua canzone è la sintesi di una storia più grande, un romanzo appunto, sia per come utilizza la lingua sia per come la racconta partendo dalla sua grande “deformazione” – la chiamo così –, ovvero il suo essere un grande lettore.
L’incontro da vicino risale invece a quando lui vide la brochure di Sanghenapule, (lo spettacolo che ho fatto con Saviano), in cui indossavo un mascherone e disse “Ma cosa è questa cosa?” e una amica comune che gli stava accanto gli spiegò che secondo lei doveva conoscermi perché – disse – “è il tuo corrispettivo almeno per le modalità di approccio – con le dovute differenze – in teatro”. Lui che è un appassionato di maschere e copricapi, venne allora a vedere lo spettacolo e lì ci fu – mi hanno detto – il suo innamoramento folle per me. Ricordo che mi aspettò fuori timidamente, mi abbracciò e testualmente mi disse che ero una rivelazione e che poche volte gli era capitato di vedere una cosa del genere, ossia lo scrivere in versi, questa capacità oratoria, il saper cantare, e io gli risposi che ero appunto suo fan da 20 anni; dopodiché – pur consapevole di quanto fossi stanco – mi invitò a cena e, successivamente, nel suo laboratorio, una sorta di luogo dei giochi in cui sono custoditi tuti suoi strumenti provenienti da tutto il mondo, e mi regalò la prima copia del suo nuovo disco che – guarda caso – si intitolava Canzoni della cupa (2016), esattamente come il testo che sto scrivendo che si chiama La cupa e lui a quel punto sentenziò: “Siamo fratelli!”
Guitti sul palco, siete in realtà portatori sani di “arte politica”, nel senso di pratica di comunità e di osservazione della stessa, di riscoperta di tradizioni e di invenzione di nuovi linguaggi, di ascolto dei tempi: ti riconosci in questa “comunanza” e quale valore e significato le attribuisci?
Naturalmente ci sono delle diversità che però hanno dei vettori in comune: io sono uno stanziale, lui potremmo definirlo un gitano, uno zingaro (nasce in Germania da genitori irpini, la famiglia vive a Reggio Emilia) che ha sviluppato un forte senso di appartenenza a tutti i posti in cui è stato proprio per il suo essere anima di molti luoghi, così creando un linguaggio che è felicemente ibridato; il mio linguaggio, invece, è quello proprio di un artista-artigiano che ha preferito lasciar perdere tutta una serie di commercialità (come del resto ha fatto Vinicio), di espedienti facili, e ha preferito tornare alle proprie origini, ai Campi Flegrei, a tutta una serie di strumenti che sono propri dell’arte antica.
Io dico sempre che la ricerca ha senso quando va a migliorare la bellezza del teatro in sé; nel momento in cui diventa ricerca fine a stessa, così come è accaduto dagli anni ’70 in poi, diventa antropologia teatrale, così come Ronconi diceva in proposito delle nuove generazioni che non fanno altro che mettere in scena stilemi oramai obsoleti. Si pensi alla regia critica: fai una roba, la fai strana travisandola completamente e dimentichi il testo; mentre io ritengo che sia giunto il tempo di tornare al testo e di tornare a come lo facevano chi lo ha inventato, ossia gli antichi greci, gli antichi romani, che scrivevano in versi, per una parola orante, oralizzata, che è sia significante che significato e da lì sono partito io. Per cui il percorso è sì simile ma io ci vedrei queste due differenze.
Una cosa è certa: Vinicio è l’unico cantautore italiano esistente, secondo me; l’unico che ha una originalità, di cui evidente il suo tratto. È lui l’ultimo e dico ultimo perché ha 50 anni e ha avuto la fortuna di ascoltare e forse stare in contatto con il vecchio cantautorato italiano che rimarrà l’esperienza il più importante insieme alla musica napoletana di inizio ‘900, quello tra gli anni ’60 e ’70, quando c’erano De Andrè, Mogol, Guccini, Battisti, Tenco per citarne alcuni. Lui è il prosecutore ma evolvendo. Io nel mio piccolo sono colui che è tornato all’antico ed è tornato con gli strumenti di coloro che dovevano distruggere la prosa per reinventarla e non per mettere in scena la distruzione di quella prosa, così come invece avviene nella gran parte degli spettacoli italiani di ricerca. Tanto è che quando mi dicono che sono un autore di ricerca io mi offendo profondamente perché io sono un autore e basta; un attore e basta, un regista e basta, si spera bravo. In questo senso mi ritengo di trincea perché c’è un discorso politico che io e Vinicio facciamo sulla resistenza di certi valori, sul recupero della memoria che è l’unico modo per vincere un problema che ci sarà in questo secolo, ovvero il rapporto dell’uomo con la memoria. Immaginiamo questa memoria ormai colma: l’uomo ha bisogno di dimostrare la sua esistenza, e lo fa non con opere che possano rimanere nel sentimento delle persone, ma attraverso opere basse, piccole per cui documentare tutto diventa documentare niente. Rispetto a ciò io posso invece ritenermi in questo avamposto: per me la memoria è tutt’altro. Sono le esperienze che ho condotto stando a tavola per ore a sentire la mia famiglia: con tutto il rispetto per i maestri, ma i più grandi spettacoli comici o drammatici li ho visti ascoltando la gente e questa è la memoria che voglio difendere. Come la difendo? Elevando da parte mia il popolo ad un linguaggio alto e altro che lo determini come indimenticabile. Un’epica per personaggi umili. Dunque il mio è un avamposto politico, è una scelta politica: il teatro come mezzo per redimere le coscienze, per dire io qui esisto e sacrifico la mia esistenza, le do senso stando in scena, massacrandomi, sudando, dedicando ogni sera lo spettacolo ad un mio morto, sacrificandomi, piangendo e lo faccio perché quella cosa possa rimanere negli occhi e nel cuore di qualcuno e possa rimanere come insegnamento da trasferire a qualcun altro, che poi è lo stesso intendo di Vinicio: dare una emozione che possa rimanere come insegnamento per la prosecuzione dell’umanità. L’arte a questo deve servire, e quando l’intellettualismo supera l’emozione non è arte ma artificio.
Entrambi, come uomini e come artisti, siete molto legati alle vostre terre di origine, in cui realizzate festival (Efestoval, nel tuo caso, lo Sponz Fest in quello di Capossela) che partendo dal racconto e la valorizzazione del territorio, parlano a tutti, in modo trasversale e universale. In futuro potremmo immaginare un gemellaggio che unisca i Campi Flegrei e l’Alta Irpinia?
Il gemellaggio in realtà è già in divenire sebbene non sia facile lavorare con me, in tal senso esemplare è stato il lavoro condotto insieme con Roberto Saviano che ha colto intelligentemente questa difficoltà e si è piegato al mio lavoro, ma con Vinicio potrebbe essere più difficile perché lui ha un suo gusto scenico: Roberto è un narratore e basta, Vinicio invece ha un portato immaginifico, proprie idee da tradurre in scena; non a caso nel disco Canzoni della cupa ha voluto chiamare i miei collaboratori – Luigi Ferrigno per le scene, Enzo Pirozzi per i costumi.
Per cui il gemellaggio con Calitri potrebbe avvenire ma forse in realtà già c’è perché entrambi non facciamo altro che portare il teatro, la cultura nei luoghi in cui non arriva più mentre noi riteniamo che debba esserci perché le persone hanno fame di cose belle ed è questo il motivo per cui – almeno nel mio caso – ad ascoltarmi viene soprattutto il pubblico “ignorante” che inizialmente non capisce nulla, ma poi esprime il desiderio di leggere il testo e inizia a capire quanto ascoltato riconducendolo alle proprie memorie, trovando definitiva documentazione di ciò nel sentimento. Ecco allora che io ritengo di difendere la memoria del sentimento, dell’oralità, del viversi insieme, del parlato, del toccarsi, e questo naturalmente – nell’epoca della memoria digitale – per il pubblico più basso è una manna dal cielo perché costoro non hanno più nulla di vivo con cui confrontarsi, solo la tv, i tablet che, però, sono strumenti morti solo con una parvenza di socialità che si perde con la mancanza dell’incontro. Io cerco di difendere questo.
Ileana Bonadies
Festival delle Ville Vesuviane
contatti: http://www.festivalvillevesuviane.it/