GLOW, sul ring con le femministe wrestler di Netflix [SERIE-TV]
Successo per la serie tv ispirata al wrestling show americano degli anni Ottanta, racconto di donne-guerriere che la vita non mette ko.
Nel 1986, quando sul ring di donne, apostrofate col nomignolo Diva, se ne vedevano poche, la TV americana trasmette un piccolo show sul wrestling femminile, GLOW. Un cast di donne, formato in gran parte de aspiranti attrici assolutamente inesperte, che ha conquistato il proprio posto sul ring a suon di cadute e prese spettacolari. I loro personaggi stereotipati creati ad arte, con capelli cotonati e costumi sgambatissimi – perché siamo pur sempre negli anni Ottanta – crearono una sorta di bizzarra sorellanza.
Oltre trent’anni dopo, queste Gorgeous Ladies of Wrestling (bellissime donne del wrestling, nda), passate sotto silenzio fino a un documentario del 2012, hanno ispirato la serie Netflix con Alison Brie di Mad Men, che si è spesa senza riserve in un ruolo intenso e comico, tra le sue migliori interpretazioni.
L’attrice americana è la trentenne Ruth Wilder, che passa senza successo da un provino all’altro, in un tempo in cui i ruoli femminili in TV e cinema erano ridotti, ancor più di come accade oggi, a muto corollario di personaggi maschili forti e interessanti. Ruth approda al casting di GLOW un po’ per caso e un po’ per disperazione, le bollette vanno pagate. In una sporca palestra alla periferia di Los Angeles, incontrerà il disilluso e burbero regista Sam Sylvia (Marc Maron) e un insieme sgangherato di donne come lei e al tempo stesso diverse. Nel faticoso percorso che le separa dalla messa in onda, Ruth proverà a fare ammenda per il tradimento di cui si è fatta artefice ai danni della migliore amica Debbie (Betty Gilpin), anche lei attrice.
GLOW è l’ennesima conferma che la nostalgia funziona sullo schermo a distanza di trent’anni. Il ridicolo glam della serie Netflix, con punte che definiremmo trash, si inserisce perfettamente in un revival degli anni Ottanta. Da Stranger Things all’episodio “San Junipero” di Black Mirror, anche GLOW ricorda il bello degli 80s con una sigla al neon, font in rosa e colonna sonora fatta di band femminili dell’epoca. Non dimentica, tuttavia, di aver da imparare qualcosa lungo questa sfavillante strada verso il successo.
In dieci episodi, le creatrici Liz Flahive e Carly Mensch condensano l’intero spettro di problematiche femminili. E lo fanno in una maniera tanto diretta quanto dolorosa, con un’onestà e un’ironia conquistate a fatica nel corso dei decenni. Si parla di aborto, maternità, body shaming e age shaming (la discriminazione sulla base di aspetto fisico ed età). Ma GLOW non si ferma qui. Perché ogni sketch, così come avveniva durante lo show originale, è satirico e spesso politically incorrect: nessuna posizione politica o etnia viene risparmiata.
La serie mostra una consapevolezza che mancava forse al wrestling show di trent’anni fa, ma non dimentica una sorta di sostenibile leggerezza nell’affrontare argomenti così densi. Il wrestling è un pretesto, la causa prossima di una guerra con sé stesse prima che col patriarcato, ma è soprattutto una forma di intrattenimento, una magia che bisogna far credere al pubblico, come ricordano i famosi del ring che appaiono come guest star nelle diverse puntate.
Se le botte e gli ouch! sul ring sono finti, i lividi che restano sono decisamente reali. Si sorride quando una delle protagoniste fa un test di gravidanza con le provette in stile piccolo chimico, come si faceva un tempo. E ci si commuove quando la stessa, da sola, occhi al soffitto e gambe divaricate, aspetta di sottoporsi al raschiamento. “Non è il momento giusto,” dice. Al contrario di GLOW. Perché questo, un punto sul continuum temporale in cui diritti come quello di abortire sono in pericolo negli USA e altrove, è esattamente il momento giusto per un ripasso.
GLOW è costantemente in bilico tra la critica all’idea di donna-oggetto che deve combattere e mettersi in mostra per ottenere i riconoscimenti che merita e quella di una guerriera senza paura, che usa il proprio corpo come un’arma di espressione. E qui si sente forte l’impronta della produttrice Jenji Kohan, creatrice di Orange Is the New Black. I corpi delle donne del wrestling sono scomodi e differenti, mostrati senza essere strumentalizzati. Sono tutt’altro che vuoti significanti di una femminilità multipla, fluida e sfaccettata e, proprio per questo, gorgeous, bellissimi.
Con una nota finale: le wrestler saranno state pagate alla stregua delle controparti maschili? Di certo non negli anni Ottanta e, riflettendo sul gender pay gap di Hollywood, forse neppure quelle della serie Netflix. Un’altra frontiera da abbattere, questa, a suon di spezzacollo e superkick.
Stefania Sarrubba