“Baby Driver”, presto in Italia [CINEMA]
L’ultima opera di Edgar Wright, in arrivo a settembre nelle sale italiane, è un riuscitissimo film musicale travestito da commedia romantica travestita da film d’azione.
Ci sono due condizioni per recensire Baby Driver, ultima fatica di Edgar Wright, la prima diretta e scritta interamente da solo.
Regola numero uno: riascoltare la colonna sonora a un volume abbastanza alto da lasciarsi coinvolgere da quel mix perfetto di campionature creative, ritornelli groove, assoli ritmati e ballad struggenti.
Regola numero due: lasciare fuori Drive, il film del danese Nicolas Winding Refn che ha gettato una luce violacea, fatta di rosa e blu, sulla vita silenziosa degli autisti-palo per rapine.
Teniamolo fuori, sebbene il confronto sia una ghiotta tentazione, perché il Baby di Wright, a differenza del Driver di Refn, un nome ce l’ha. Quel Baby, B-A-B-Y, come ne fa lo spelling incredula Deborah, cameriera nella tavola calda dove Baby si reca più volte al dì, è un soprannome che assume di fatto la funzione di nome, prima della rivelazione finale.
Baby (Ansel Elgort) fa l’autista per la gang del criminale in doppiopetto Doc (Kevin Spacey), onorando un patto stretto per ripagare un vecchio debito.
Stare dietro al volante è la cosa che gli riesce meglio: veloce, fluido, spericolato e con le immancabili cuffie nelle orecchie. Perché Baby – che divide casa con il padre adottivo Joseph (ottimo CJ Jones), paradossalmente sordo – coi suoi acufeni ci convive più che bene.
La sua storia riprende il video musicale di Blue Song dei Mint Royale, ancora diretto da Wright, in cui un autista si cimenta nel lip sync del brano con movimenti sincopati. Allo stesso modo, Baby parla poco, ma è capace di trasformare i rumori della vita quotidiana, i tintinnii, le frasi e gli insulti che gli rivolgono gli altri membri della banda di Doc in una sinfonia.
Così nasce la raccolta di cassette di improbabile musica elettronica da lui composta, tra le quali si nasconde il nastro con la scritta “Mom”, mamma, che cela il passato traumatico di Baby. L’incontro con un altro personaggio femminile, la cameriera Deborah (Lily James), sarà la spinta per decidersi a mollare la malavita.
Cosa c’è in un nome, chiedeva Giulietta di Shakespeare. Beh, in un nome può starci tutta la differenza del mondo. Il soprannome tenero e infantile fa uscire il personaggio dall’anonimato in cui Refn aveva confinato il suo autista senza nome.
Il Baby di Ansel Elgort, già protagonista di Colpa delle Stelle, è l’unico reale in un mondo di personaggi macchiettistici. Il cast comprende altri nomi noti, come Jamie Foxx e Jon Hamm, che offrono performance interessanti di criminali agli antipodi. Tanto rude e ignorante il primo, quanto di classe e gentiluomo alla Don Draper il secondo, entrambi svilupperanno una crescente irritazione verso il mutismo di Baby. Anche loro utilizzano dei soprannomi stereotipati, rispettivamente Bats e Buddy. Non a caso, gli unici di cui si conosce il nome vero sono, appunto, Deborah e Joseph, che mostrano, senza maschere, un candore e una bontà d’animo poco adatti a una vita di inseguimenti e sparatorie.
I personaggi-tipo non sono nuovi per Wright, regista del fumettistico Scott Pilgrim vs. The World e della Trilogia del Cornetto. Baby, con il suo atteggiamento ingenuo e la sua ossessione musicale, è a un passo dal farsi macchietta, quasi uno Scott Pilgrim al volante, riuscendo, tuttavia, sempre a restare al di qua del confine della verosimiglianza.
Baby è tanto buffo da risultare onesto, sia quando si muove in piano sequenza tamburellando su superfici, ondeggiando e scansando i passanti, sia quando restituisce la borsa a un’anziana signora a cui ruba la macchina. Per necessità, si intende. Tutto il male collaterale che Baby fa è qualcosa che il ragazzo affronta con stoicismo, un destino al quale sa di non potersi sottrarre.
Se proprio si deve muovere una critica al film di Wright è quella di non approfondire i personaggi di contorno. Poco o niente si sa dei membri della gang, di Doc, di Pops, di Deborah, tutti propedeutici allo svelamento della storia di Baby, cassetta dopo cassetta.
Il film ruota intorno a Baby e alla sua musica, il resto non è che un deviare dalla strada principale e forse è giusto così. Perché Baby guida sempre solo, cuffie incastrate nel condotto uditivo, nell’attesa di elaborare la perdita che l’ha condizionato per tutta la sua giovane vita.
Dolce e originale, Baby Driver è un action musical, che si affida alla musica come fil rouge tra scene d’azione, comiche e d’amore. È un film in cui tutte le canzoni, come dirà Deborah, sono dedicate a Baby. Questa, benedizione e croce da portare a un tempo, ribadisce che Baby, come si capirà verso la fine, è molto più di un soprannome per il giovane. Ciò che quel nomignolo racchiude è quello che veramente lo definisce. Persino quando il ragazzo rivela il suo nome all’anagrafe, che chi scrive ha significativamente dimenticato, è quel “baby”, apposto al “driver”, a costruirne l’identità.
Stefania Sarrubba