Claudia Contin: quando Arlecchino è donna [INTERVISTA]
Dal 1987 interprete con continuità della figura di Arlecchino, ha girato il mondo impegnata nella ricerca artistica contemporanea, per poi approdare ospite alla quarta edizione del Festival internazionale di Commedia dell’Arte di Napoli.
Friulana di nascita e artista di rilievo internazionale, Claudia Contin Arlecchino, la prima donna ad aver indossato la maschera più famosa della Commedia dell’Arte, sarà in scena questa sera a Napoli – nell’ambito del Festival Internazionale di Commedia dell’Arte “I viaggi di Capitan Matamoros” – presso la Basilica dello Spirito Santo con Né serva né padrona, una confessione buffa sulle donne che introduce alla sua filosofia autoironica sulla femminilità e ai segreti del mestiere delle “Comiche” .
Né serva né padrona è lo spettacolo di Commedia dell’Arte che porti questa sera in scena alla Basilica dello Spirito Santo a Napoli. Se – come suggerisce il titolo – non è né serva né padrona, com’è allora la donna?
Semplicemente persona. Nella commedia dell’arte la donna acquista una possibilità di scelta: scelta del lavoro, del mestiere, di viaggio, scelta di uscita dalla famiglia, scelta del marito e degli amori. Sono atti rivoluzionari perché all’epoca non erano affatto compresi nell’immaginario femminile. In questa confessione cerco di dare un’alternativa alle visioni polarizzate. Oggi o si è serva, moglie subordinata al marito oppure se ci si emancipa si diventa padrona, dirigente, signora e pronta a comandare, anche in un rapporto. Queste altro non sono che prigioni per la vera femminilità che ha tutta una serie di caratteristiche interessanti di condivisione e soprattutto di libertà di scelta. La liberà e l’autoironia io ritengo siano fondamentali. Perché se riesci a prenderti in giro anche come debole o ti prendi in giro quando fai l’isterica padrona scopri di avere tante altre caratteristiche femminili che sono meno limitanti di questi due termini, la serva e la padrona.
Un teatro che indica la via dell’emancipazione femminile o un festival come questo napoletano de Il viaggio di Capitan Matamoros incentrato quest’anno su storie di migranza ci raccontano quanto l’arte e la società possano essere un connubio perfetto. Quale e quanta forza ha oggi il teatro per incidere nel tessuto sociale?
Si sente dire che la commedia dell’arte è morta, il teatro è morto, l’arte in generale non esiste più. Nessuno va più a teatro, nessuno legge più perché i nuovi mezzi di comunicazione hanno fatto decadere queste forme culturali in nome delle tecnologie e della multimedialità. In realtà l’uso non acculturato delle tecnologie o della comunicazione in meno di vent’anni ha creato grossi problemi: stalking in rete, avatar, perdita di contatto con la realtà. Il teatro, la letteratura, la poesia, l’arte, la cultura in genere stanno ritornando sulla scena per arginare queste problematiche, che non nascono dai mezzi, ma dall’uso inconsapevole degli stessi. Quindi proprio per usarli al meglio ci vuole un rincontro con la concretezza analogica della cultura invece che unicamente digitale. In questo senso la commedia dell’arte può essere di grande aiuto: i corpi, le interazioni, l’uso di capire i caratteri sono oggi più che mai essenziali nella società.
Arlecchino e il suo costume. I triangoli di diversi colori, disposti a losanghe, sembrano rimandare alla multiculturalità del nostro mondo globalizzato. Possiamo affermare che il costume rispecchia il carattere stesso di Arlecchino, la maschera più famosa della Commedia dell’Arte?
Bella domanda. Storicamente questi triangoli provengono da un progressivo rattoppamento del costume povero del servo, del facchino, del mugnaio per poter continuare ad indossarlo; la fantasia dei colori – che forse deriva dai vecchi giullari – si unisce alla povertà, io amo dire che così, con questo suo costume, Arlecchino ha codificato l’eleganza della povertà. È vero anche che manifesta un’altra cosa: come personaggio è onnivoro, quindi ama le differenze, non si fissa su un’unica livrea, è dunque anche simbolo della sua capacità di variare, di emigrare, di accogliere. Rispecchia il suo carattere, quella che è la capacità dell’essere umano di essere cosmopolita, cittadino del mondo, quella che noi chiamiamo globalizzazione.
L’appellativo di Arlecchino è entrato da diversi anni nella tua carta di identità. Cosa ha Claudia di arlecchinesco?
Devo ammettere che Arlecchino è il personaggio più distante da quello che ero io; nell’Arlecchino che faccio non cerco di metterci qualcosa di mio, ma cerco di raggiungere questo archetipo che ha cinquecento anni e che è molto più grande di me. Il fatto di aggiungere il nome non è un impossessamento di questa maschera, è invece un atto di adesione, vuol significare “io accetto di entrare al tuo servizio, di portare il tuo nome al futuro” un po’ come facevano i comici del Cinquecento, ad esempio Tristano Martinelli detto Arlecchino. Per esigenze pratiche ho dovuto cominciare ad assumerlo quando giravo soprattutto all’estero dove ero già conosciuta come Claudia Arlecchino; si è quindi aggiunto come marchio di fabbrica o – per meglio dire – come marchio di mestiere. Devo dire che il nome d’arte fa l’identità. È una cosa che il mondo adesso ha bisogno di vedere su di me, quindi io me ne faccio carico, accetto questa responsabilità senza appropriarmene, perché Arlecchino è un patrimonio collettivo.
Un tuo sguardo al teatro italiano. In cosa eccelle? E in cosa è carente?
Mi piace guardarlo da fuori, da come ci vedono dall’estero. Noto che quello che altrove riconoscono al teatro italiano è la competenza nella comunicazione, sia verbale che linguistica, perché l’italiano è una lingua amatissima all’esterno, anche nelle sue declinazioni dialettali e nelle musicalità. È molto apprezzata anche l’espressione gestuale tipicamente italiana; questo non solo nella Commedia dell’Arte, ma anche ad esempio nella cosiddetta Commedia all’Italiana, nella tragedia: la nostra forza sta anche nella capacità di comunicazione extralinguistica. Questo però non è accettato dagli italiani stessi. Qui ci si chiude in intellettualismi che fanno perdere di vista le caratteristiche per cui siamo apprezzati. Siamo abituati ad importare, quando in realtà siamo dei grandi esportatori di cultura oltre che di manufatti, di cibo. È vero che siamo dei grandi imitatori e restitutori, ma non sappiamo valorizzare le nostre caratteristiche, manca l’autostima per quello che siamo. L’autostima invece è fondamentale!
Maria Anna Foglia