“Ammore e malavita” dei Manetti Bros [CINEMA]
Il nuovo film di Marco e Antonio Manetti, presentato in concorso all’ultimo Festival di Venezia, è una sceneggiata napoletana dai toni ironici che resta fedele alla poetica dello “Z-movie”.
A quattro anni da quel Song’e Napule (2013), per certi aspetti molto diverso dal resto della loro filmografia, seppur fedeli ad un certo tipo di “codice” che li ha sempre contraddistinti, i Manetti Bros. tornano a girare un’opera a Napoli, probabilmente perché trovano nella città partenopea una delle trasposizioni più efficaci del loro immaginario, e lo fanno con Ammore e malavita, dopo alcuni anni di produzione televisiva con Rex e il ritorno a L’ispettore Coliandro, ritrovando gran parte del cast precedente.
Stanco di tante pressioni, Don Vincenzo (Carlo Buccirosso), un pezzo grosso a Napoli detto “o’ re do pesce”, su suggerimento della moglie Donna Maria (Claudia Gerini), finge la propria morte. L’imprevisto incontro con l’infermiera Fatima (Serena Rossi) porta il boss a ordinare a uno dei suoi scagnozzi, Ciro (Giampaolo Morelli), di sbarazzarsi dell’indesiderata testimone. Tuttavia, al momento di eseguire il suo ordine, Ciro riconosce Fatima, un amore adolescenziale e mai veramente dimenticato che lo porterà a tradire sia il capo che il “fratello” Rosario (Raiz), pur di difenderla.
Presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, la partecipazione di Ammore e malavita è stata definita da alcuni come “fuori contesto”. Quello a cui la definizione, giusta o sbagliata che sia, sottintende è da ricercare nel fatto che probabilmente pochi considerano (o in alcuni casi sanno) che da sempre i Manetti fanno nel loro cinema qualcosa che è oltre l’outsider, una sfida continua ai tabù del “bello e confezionato” che contraddistingue una grande parte delle produzioni italiane. La loro delirante ironia stavolta si trova in un musical che calca i fasti della sceneggiata napoletana, allontanandosi dall’esperimento neomelodico esplorato in Song’e Napule, con dei toni “gomorroidi” decisamente grotteschi. Le reazioni in sala (napoletana, è bene specificarlo) parlano chiaro: già a pochi secondi dall’inizio si ride molto per una serie di battute, e successivamente anche di gag, a tratti demenziali e pacchiane ma di presa totale, grazie ad un complesso di caratteri sopra le righe.
Spiccano le presenze di un travolgente Carlo Buccirosso nei panni di Don Vincenzo e di una divertentissima Claudia Gerini che, interpretando la Donna Maria in cui si riversa il lato estremamente cinefilo dei registi, si trova sorprendentemente a proprio agio sia col dialetto napoletano, che con un tipo di opere molto fuori dai ranghi in cui spesso siamo abituati a vederla e forse ad etichettarla (ma non è la prima volta, basti pensare al folle La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli, in cui l’abbiamo vista recitare con Vincent Gallo in una delle perle di un cinema italiano totalmente “off everything”). Il duo Gerini-Buccirosso, nel classico “la vedova e ‘o muorto (il morto)” della sceneggiata, è così efficace da quasi farci dimenticare che i protagonisti del film sono Giampaolo Morelli, che interpreta Ciro, una sorta di freddo e tormentato eroe fumettistico, e Serena Rossi nel ruolo di Fatima, un’infermiera un po’ sempliciotta ma dai grandi sogni.
Il cast “musicale” è composto poi, tra gli altri, da Raiz in Rosario, e da Franco Riccardi nel fedele scagnozzo Gennaro, un piccolo ma efficace ruolo i cui momenti musicali sono di grande impatto e poesia. Il film, ricchissimo di chicche per cultori e feticisti del particolare più che del complesso, dà sfogo a tutta la passione musicale, televisiva e soprattutto cinematografica, che i fratelli Manetti avevano sempre manifestato nelle proprie opere. Funziona molto quando butta tutto sull’ironia, con una satira molto napoletana che forse può trovare qualche difficoltà ad essere compresa fuori dai confini partenopei e che per questo, forte dell’esperienza di Song’e Napule, va su delle rappresentazioni estremamente folcloristiche che possono agevolarla in questo senso. Il risultato è spesso di un esilarante a tratti delirante e va verso il trash puro (basti pensare allo spassoso tour organizzato per i turisti in cerca di “esperienze forti” a Scampia, non così lontano dal vero).
All’inizio di Ammore e malavita si ha la sensazione che tutto viaggi nella stessa direzione: dalle musiche di Aldo e Pivio De Scalzi, alle le liriche di Nelson (premiate a Venezia), le coreografie di Luca Tommassini e la fotografia di Francesca Amitrano (già in Song’e Napule, Rex e L’ispettore Coliandro) che asseconda perfettamente i gusti della regia che sono – per chi si fosse perso le opere precedenti – fatti anche di sequenze sbrindellate, sovraesposizioni, soggettive così “goffe”, gli stacchi, gli slow-motion, i cambi di luce sui volti da stand-up comedy e le angolazioni da film di genere. Dunque, finchè va verso questo culto trash, tutto resta molto fedele a quello che simpaticamente potremmo definire la poetica dello “Z-movie” dei Manetti, dove non è un caso se la “Z” è l’ultima lettera dell’alfabeto, perché i due fratelli si ascrivono da sempre a un cinema di minoranza “diverso tra i diversi”, e dove la “Z” sta principalmente per “Zora”, protagonista del vero inizio della folle liturgia manettiana (quel primo Zora la vampira, 2000, in cui basti sapere che il Conte Dracula si innamora dell’Italia e decide di trasferirsi dalla Transilvania dopo aver visto Carramba! Che sorpresa). Tuttavia, bisogna anche da dire che c’è un vero e proprio solco all’interno del film stesso, che inizia a funzionare di meno quando alza l’asticella delle sue ambizioni creando un divario tra le parti “serie”, poetiche (almeno nei tentativi), che sono sicuramente le meno interessanti, e quelle ironiche sopracitate, che a volte viaggiano in due direzioni ingenuamente opposte.
Il dramma, che funziona finché non è riflessivo, rischia di sfiorare il didascalico stonando coi caratteri, i toni, e le dinamiche che il film ha costruito, e che forse per questo ha una lieve flessione che ne dilata il “metabolismo”. Alla fine di Ammore e malavita si ha la percezione che i Manetti Bros siano molto cambiati rispetto al passato, e che si siano messi di fronte ad un bivio dove non hanno scelto ancora la strada, e non è detto che sentano la necessità di farlo. Non c’è più ma si sente tutta quella influenza dell’horror-comedy da cui vengono, resistendo nella mediazione tra intrattenimento e un modo di fare cinema che in Italia si è fatto molto di più in passato ma che oggi, tra professionisti degni di questa nomea, per evidenti motivi economici non si fa più. Se con la Trilogia del Cornetto Edgar Wright, per citarne uno, è partito da qualcosa di simile, e in pochi anni è arrivato a Baby Driver (2017), che è stato definito un autentico capolavoro, viene allora naturale chiederci a cosa arriveranno e ci riserveranno ancora i Manetti Bros. Quel che è certo è che continueranno a divertirsi, e lo faranno con la stessa leggerezza che si aspettano dai loro spettatori, con ambizioni ma senza mai prendersi troppo sul serio.
Luca Taiuti