L’ammore nun’è ammore: Shakespeare guappo napoletano
Sul palco del Teatro Civico 14 di Caserta, Lino Musella dà nuova voce ai Sonetti del Bardo, riscritti, in lingua napoletana, dalla poetica penna di Dario Iacobelli.
“Ch’e perso allora, ch’e perso? Jammo a vedè…/ nu cuorpo muorto? A tavula p’e viermi?/ Chello ca nu curtiello ‘e mmerda s’arrubaje a te?/ E chisto nun sogh’io, chist’è nu cadavero raffermo!
Nun songo ‘o cuorpo, ma chello ca ‘ncuorpo nun se vede e ce sta/ Ij songo ‘sta poesia e l’annema mia co ‘sta poesia te restarrà”. Quando Lino Musella recita i versi di Dario Iacobelli è una atmosfera di sospensione a crearsi in sala, un silenzio assoluto in cui l’eco della voce dell’attore si fa ancora più assordante. “Ij songo ‘sta poesia e l’annema mia co ‘sta poesia te resterrà” non suona solo come la dichiarazione dell’innamorato del sonetto 74 di William Shakespeare, è anche il testamento d’amore di un artista al suo pubblico, Shakespeare-Iacobelli, nella totale trasfigurazione operata da Musella, in cui corpo e voce diventano essi stessi poesia.
L’ammore nun’è ammore, spettacolo di e con Lino Musella, accompagnato dal musicista Marco Vidino, dopo il debutto al Piccolo Bellini, è stato in scena lo scorso 29 ottobre, in data unica, al Teatro Civico 14 di Caserta. L’attore-regista ha affrontato la poesia di William Shakespeare nella traduzione e attraverso il tradimento linguistico operato dal poeta napoletano. Scomparso nel 2013, Iacobelli ha percorso trasversalmente i vari mondi dell’arte: scrittore e poeta, paroliere per gruppi musicali ed ideatore di installazioni, sceneggiatore e regista. La raccolta 30 sonetti di Shakespeare, traditi e tradotti da Dario Iacobelli, pubblicata postuma, raccoglie un magma di parole, il cui fuoco è alimentato dal sentimento del contrasto. La bellezza dei versi scespiriani si scontrano con la durezza della lingua, creando una poesia perfetta, la cui perfezione risiede nella sua essenza di verità. Brutale, spergiura, violenta e cattiva, ma anche appassionata, dolce, viscerale e coraggiosa quella verità che si legge sui volti di chi il napoletano lo parla tutti i giorni. Forse è per questo che l’immagine di copertina del libro presenta Shakespeare con l’orecchino, perché vuole restituire una visione del Bardo quanto mai vicina al lettore. Il viso di quel guappo, di quello scugnizzo inglese diventa quotidiano e la sua anima, mediante la lingua, entra in connessione con quella della comunità emotiva, immersa nel buio del teatro.
La parola sonora scespiriana si trasforma in musica nuova, mediante i significanti di cui si compone la scrittura di Iacobelli, veicolo evocativo dei significati in essa trattenuti. Il loro suono e le immagini che questo suono disegna davanti agli occhi producono il tradimento che, oltre ad essere linguistico, è percettivo ed investe lo spettatore in un turbinio di suggestioni sinestesiche. Se tradere si può tradurre dal latino anche con “affidare, confidare, consegnare” il lavoro di Dario Iacobelli affida ad una lingua, e al popolo che la parla, l’universalità delle emozioni codificate da Shakespeare, tradotte e tradite un’ulteriore volta da Lino Musella che consegna quella scrittura al teatro, dopo averla ingurgitata e rovesciata, sulle tavole del palcoscenico, attraverso il corpo e la voce. Musella si fa incarnazione della verità contenuta nelle parole; la perfezione della poesia è trasferita nella fonè dell’attore, potente e immaginifica, equilibrata e pulsante, che mostra l’anima umana, quella che Antonin Artaud diceva essere “una matassa di vibrazioni”. Ad amplificare il respiro vibrante della scena, la scelta degli strumenti musicali, percussioni e cordofoni, viatico di un’ esperienza tanto intima quanto collettiva: il senso d’intimità è percepito dal pubblico mentre l’attore si offre al rituale collettivo. Bendato, si muove in sala affidandosi soltanto alle mani tese degli spettatori che vanno incontro alle sue. Nel gioco della fiducia, Musella inscena un altro gioco, nel quale la canzone Uocchie c’arraggiunate si confonde con i versi del sonetto 113: la tradizione poetica e teatrale napoletana si fonde con quella inglese, dando vita ad un nuovo codice. Elemento, questo, che, ancora una volta, serve a consolidare la comunità teatrale costituita attorno all’universalità del messaggio raccontato: “l’ammmore nun’è ammore si subbeto se cagna […]/ no, l’ammore è nu faro fisso miez’o mare/ ca guarda ‘a tempesta ‘nfaccia e n’se ne fotte […]”.
Antonella D’Arco
Teatro civico 14 | Spazio X
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