Se “American Buffalo” parla napoletano…
Marco D’amore dirige il testo del drammaturgo americano David Mamet, racconto di un sogno di rivalsa che da Chicago arriva nel cuore di Napoli passando per la miseria di tre esistenze disposte a tutto.
Andato in scena al Teatro Bellini dal 14 al 19 novembre, American Buffalo è la rivisitazione diretta da Marco D’Amore dell’omonimo testo dell’autore americano David Mamet scritto nel 1975, e che ha già visto da allora numerose rappresentazioni. Interpretato da attori di grosso calibro come Al Pacino che lo portò a Broadway nel 1981 e adattato per il cinema nel 1996 con Dustin Hoffman, in Italia è grazie a Luca Barbareschi che arriva negli anni ’80, sia come libro che come spettacolo, prima di essere “tradotto” in napoletano dallo scrittore Maurizio De Giovanni per la versione attuale.
Incentrato sugli equilibri esistenti nei rapporti umani e su come gli stessi possano essere stravolti a causa di futili pretesti come ad esempio un piccolo dischetto di metallo simbolo di ricchezza e potere, ed emblema di affermazione in una fetta di società in cui – negli anni ’70 così come oggi – il dimostrare e mostrare di essere furbi, dritti, senza scrupoli è fondamentale per sopravvivere, la messinscena si avvale dell’interpretazione di Tonino Taiuti nei panni di Donato, detto Don, proprietario di un negozio-museo strapieno di cimeli americani, di Vincenzo Nemolato in quelli del giovane e poco furbo Robbi, sotto la cui protezione vive da figlioccio tuttofare, e dello stesso D’Amore nel ruolo del soprannominato ‘O Professore, ambigua figura amica di Don.
Dietro la ricerca del fantomatico valore di un nichelino con la testa di bufalo impressa (da cui il titolo), si snoda la trama e si consuma l’apparente l’amicizia che lega i tre, in un crescendo di tensione e adrenalina. Se infatti è da una mattina come le altre, in cui è la routine di sempre a riempire il tempo, che ha avvio il tutto, è con l’incalzare delle ore e lo svolgersi di alcuni piccoli avvenimenti, che in maniera quasi surreale si innesca una spirale di tensione che ingabbia gradualmente i personaggi portandoli a fronteggiarsi per fame di protagonismo e arrivismo fino ad implodere. De resto, lo stesso regista in merito afferma: «American Buffalo è la storia di un fallimento. Annunciato, quasi voluto, destino ineluttabile a cui non ci si può sottrare».
Animata da dialoghi serrati, diretti e senza filtri, che intendono ripercorrere i suoni e ritmi della poesia con cui lo stesso Mamet afferma siano infarciti i suoi testi, la vicenda viene qui drammaturgicamente e attorialmente resa in maniera credibile, attraverso tradimenti alla versione originale che da un lato hanno il compito di calare i fatti in una dimensione contemporanea e napoletana, e dall’altro di restituire le atmosfere immaginate dal Premio Pulitzer, scavando nella miseria che abita ciascun uomo, che è soprattutto fragilità e paura. Merito certamente di un adattamento affidato ad una penna molto apprezzata e non nuova al teatro, come quella di De Giovanni, e di un cast di indubbia e comprovata bravura che bene amalgama le peculiarità di stile che caratterizza ognuno, in nome di una coerenza che si intuisce ha rappresentato l’obiettivo dell’intero lavoro condotto.
D’altronde, di esperienza sono gli interpreti coinvolti a partire da Taiuti – vincitore del premio Le Maschere 2017 come Miglior attore non protagonista – appassionato di musica e musicista, nato e cresciuto nei vicoli di Napoli, e forse per questo aderente col suo linguaggio e la sua storia allo stile musicale di Mamet e al personaggio di Don che racchiude nelle movenze e nella parlata che lo contraddistinguono la tipica spavalderia buonista americana; per continuare con Nemolato, volto del cinema, della Tv e del teatro, che coi sui gesti frenetici e plastici al contempo, conferisce nella giusta misura semplicità e schiettezza al suo Roberto tanto da renderlo da subito l’anima più pulita della storia – quella dalla cui parte diventa inevitabile stare – e per questo vittima sacrificale delle dinamiche che si vengono a creare tra gli altri due personaggi; per finire con D’Amore che dopo gli esordi teatrali e il grande successo raggiunto sul grande schermo nella serie tv Gomorra (la cui seconda serie ha visto la luce proprio in questi giorni), combina qui entrambe le sue esperienze conferendo al suo personaggio una identità borderline, viscida nell’aspetto e incerta nel parlare, ma diabolica nelle azioni a cui la sua stessa regia nulla risparmia, in un riuscito equilibrio tra dialoghi, silenzi e gesti in linea con il tratto distintivo dello scrittore statunitense. La cui trasposizione dal sound partenopeo giunge a confermare come i suoi testi – rispolverati proprio recentemente per il teatro da tre diverse produzioni italiane (China Doll per la regia di Alessandro D’Alatri e con Eros Pagni nel ruolo principale, Americani con Sergio Rubini e Gian Marco Tognazzi) – siano pregni di attualità pur al variare delle epoche e degli spazi geografici in cui vengono contestualizzati, a testimonianza di quanto l’uomo, sebbene con le sue mille sfumature, ruoti in realtà penosamente sempre attorno agli stessi bisogni primari.
Irene Bonadies
Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14 – Napoli
contatti: www.teatrobellini.it