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In scena fino a domenica 26 novembre, sul palco del Teatro Bellini di Napoli, il best-seller vincitore del Premio Strega nel 1981 nella versione teatrale di Stefano Massini, adattata e diretta da Leo Muscato.

IL NOME DELLA ROSA

Fonte foto Ufficio stampa

“In fondo la domanda base della filosofia (come quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa?”; così scrive Umberto Eco nelle postille a uno dei testi più letti e tradotti della letteratura italiana del Novecento: Il nome della rosa. Pubblicato nel 1980 e vincitore, l’anno successivo, del Premio Strega, la trama del romanzo poggia le sue fondamenta su quella domanda che imbastisce l’investigazione, reale e metafisica, di cui sono protagonisti un frate francescano ex-inquisitore, Guglielmo da Baskerville e il suo aiutante, il giovane novizio benedettino, Adso da Melk.
Il regista Jean-Jacques Annaud, nel 1986, decise di transcodificare in pellicola le pagine del filosofo nato ad Alessandria, fornendo una rielaborazione cinematografica, semplificata e con alcune modifiche rispetto alla complessa opera in scrittura, di cui furono interpreti Sean Connery, nel ruolo di Guglielmo e Christian Slater, in quello di Adso. Il romanzo, però, non aveva ancora percorso la strada del teatro. Soltanto nello scorso maggio, il Carignano di Torino ha visto il debutto dello spettacolo Il nome della rosa, per la regia di Leo Muscato e l’adattamento ad opera dello stesso della versione teatrale di Stefano Massini che, in questi giorni e fino a domenica 26 novembre, è in scena al Teatro Bellini di Napoli.
Fare i conti con Il nome della rosa non dev’esser stata impresa facile. Il romanzo, infatti, si presta a molteplici letture. In esso è presente sì la trama poliziesca, ma come pretesto per un’indagine semiotica; la scrittura, poi, è pregna di digressioni storico-filosofiche e forte è l’intertestualità. Che «il linguaggio letterario è molto diverso da quello teatrale» perché in esso «alla descrizione si sostituisce l’evocazione; alla minuziosità del dettaglio, si supplisce con l’allusione», è lo stesso Leo Muscato che lo ricorda, per poi smentirsi in una visione registica estremamente didascalica e materica.
Anche se presenti, nella messinscena sono solo accennati: sia la questione trascendentale, ad esempio nel conflitto verbale tra chi crede alla lucifera presenza dell’anticristo e chi si affida alla ragione e al procedimento logico per la risoluzione del crimine;  sia le questioni storiche e teologiche,  suggerite  dalle controversie con la delegazione cardinalizia inviata dal Papa, dalla presenza dell’eresia dolciniana e dalla diffidenza che i monaci, per loro natura chiusi poiché segregati da statuto tra quattro mura, nutrono nei confronti dei frati abituati alla compassione e alla comprensione di chi vive tra il popolo; sia l’ironia del dotto francescano, che infarcisce il suo dialogare, sia la centralità simbolica che assume la biblioteca quale enorme metafora del labirinto umano. Le parole, però, galleggiano in superficie, essendo accompagnate da una regia e da un impianto scenico che le descrive, le spiega, ma non le potenzia, preferendo dare risalto all’aspetto narrativo della vicenda da giallo.

Foto di Andrea Guermani

Foto di Andrea Guermani

Gli attori – i ruoli principali: Luca Lazzareschi/Guglielmo da Baskerville, Eugenio Allegri /Ubertino da Casale e Bernando Gui, Bob Marchese/Jorge da Burgos, Giovanni Anzaldo/il giovane Adso, Marco Zannoni/l’abate, Franco Ravera/Remigio da Varagine, Alfonso Postiglione/Salvatore – si muovono all’interno della solida scenografia di Margherita Palli, che, a seconda della scansione del tempo in riquadri tematici, si cela sotto il velatino o sotto la sagoma delle proiezioni, disegnando, di volta in volta, i diversi luoghi, anch’essi ancorati alla cifra del realistico, penalizzando l’immaginario astrattivo della percezione. Ad entrare e uscire da questi ambienti è il vecchio Adso, nella voce narrante di Luigi Diberti che affabula lo spettatore con i suoi ricordi e gli insegnamenti del suo maestro, sconfitto, come investigatore, lungo la risoluzione del mistero delle  morti sospette tra i monaci di un’ imprecisata abbazia dell’Italia settentrionale, nell’anno domini 1327.
A trionfare, apparentemente, è la cecità fisica e mentale dell’anziano Jorge che lo induce a distruggere il secondo libro della Poetica di Aristotele, temendo che il riso e la commedia, argomenti contenuti in quel manoscritto, potessero minare i dogmi della cristianità. La curiosità e la brama di conoscenza, che non abbandonano mai la mente di Guglielmo, sono, al contempo, strumento risolutivo e condanna per l’uomo in cammino verso nuove indagini, peregrino fino al raggiungimento di una conclusione; quella echiana, su Il nome della rosa, dice che: “una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi”.

Antonella D’Arco

Teatro Bellini
Via Conte di Ruvo, 14; 80135 – Napoli (NA)
contatti: 0815491266 – http://www.teatrobellini.it/

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