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Il teatro Mercadante, fino al 3 dicembre, si trasforma nella Tebe di epoca mitica, luogo di prodigi e di mistero in cui, grazie ad un cast guidato in scena dalla regia di Andrea De Rosa, si manifesta in tutta la sua potenza l’attività perturbatrice e panistica del dio Dioniso, che, così come il destino, ducit volentem, nolentem trahit.

Foto Marco Ghidelli

Foto Marco Ghidelli

Cos’è dio, cosa non lo è, e cosa sta in mezzo?
È questa la domanda essenziale – profonda fino a scarnire le radici, attuale come la tragedia classica sa magistralmente essere – che interroga la nutrita platea assiepata tra palchi e poltrone del Teatro Stabile di Napoli. E gli occhi degli spettatori sussultano, confitti su un palcoscenico che magneticamente attira e orrifica, e che non consente risposte assolute: là, nel buio della notte, di tanto in tanto rischiarato dagli astri o dal fuoco o dall’arte, stanno le Baccanti, a un tempo schiave e libere, con la furia dei loro sensi e il palpito dei loro corpi. Là è Dioniso, loro guida, loro maestro e loro dio, al cui furor e alla cui allegrezza esse si piegano, rifiutando così i “buoni costumi” della civitas per abbandonarsi alla sfrenatezza del vino, del sorriso e delle pulsioni più immediate e selvagge. Euripide, più di due millenni fa, ci ha consegnato una lettura senza tempo e ora grazie ad una produzione comune dello Stabile di Napoli e dello Stabile di Torino, per una riscrittura e una regia di Andrea De Rosa, i suoi quesiti tornano a bussare alla porta degli spettatori: fino al 3 dicembre, l’assito del teatro Mercadante vibrerà delle sue domande, senza risposta.  
Sulla scena, curata con sapiente gioco dei pieni e dei vuoti da Simone Mannino, esiste una dicotomia evidente tra ciò che è più prossimo al pubblico (una sedia rossa, con le spalle alla platea, quasi primo posto in teatro e luogo in cui sieda il più importante tra gli astanti) e ciò che è invece lontano (il monte Citerone, che è qui un nero cubo – che ricorda la Kaaba – per accedere al quale, buio come una bocca d’inferno, occorre affrontare una simbolica ascesa di pochi metri). Di volta in volta, la sorte o un dio – “il dio è qui” – mettono in moto la vita e la scena, mutando ciò che sembra stabile e razionalmente ineluttabile e spingendo le dramatis personae, volenti o nolenti, oltre quel limen che separa il violento rigore dello scetticismo (che comprende solo ciò che vede) dalla languida partecipazione ai riti bacchici; e non è un caso che molte notevoli azioni drammatiche si svolgano proprio sull’uscio, luogo di confine tra la razionalità, al di qua, e la divina ed incomprensibile verità, dall’altra parte. Ora più ovattato, ora furente incalza il ritmo delle danze, scandito dai battiti di un cuore accelerato che, alternato ai gemiti orgiastici provenienti dal fondo dell’oscurità, piomba la platea in uno stato di trance e di sommessa agitazione: l’udito della platea è colpito quasi sempre (perfetto è il connubio delle musiche con la messinscena tutta, proposto da G.U.P. Alcaro), e sembra saper comunicare al corpo degli astanti quando prendere fiato e quando trattenerlo.
In una tale eccitazione dionisiaca, che confonde i generi e sfuma gli assunti assoluti, matura lo scontro tra Pentèo – il razionale “uomo della sofferenza” -, interpretato da un Lino Musella convincente e ben centrato, e il divino Dioniso; e, poste tali premesse, non stupisce che a impersonare il dio sia Federica Rosellini: non c’è più maschile, non c’è più femminile, ci sono solo i sensi – esasperati – e i desideri, umani anche quando desiderati da un dio.

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Foto Marco Ghidelli

Preziosa è la funzione di Cadmo (un Ruggero Dondi emozionate, specie nella chiusa della messinscena) e dell’indovino Tiresia (Marco Cavicchioli, enigmatico e straniante): essi si fanno mediatori – tra il dio e Pentèo, da una parte; tra la scena e il pubblico, dall’altra – ed è grazie a loro che può essere rappresentata la riflessione sugli ἄγραπτα νόμιμα (leggi non scritte), sulla natura del dio e degli uomini, sulla dicotomia tra sottomissione alla propria materica natura e le esigenze razionali di ordinamento del reale. Nei momenti finali della pièce, sublimazione del (mis)fatto e nota di dolce pietà familiare, Cristina Donadio si fa Agave: il suo progressivo “risveglio” dal torpore bacchico le svela l’orrore compiuto e l’irredimibilità del male; la sua interpretazione, al culmine della Spannung, scalda il cuore.
Completano il cast in scena Matthieu Pastore, Irene Petris, Emilio Vacca e Carlotta Viscovo, accompagnati dalle allieve della Scuola del Teatro Stabile di Napoli Marialuisa Bosso, Francesca Fedeli e Serena Mazzei.
Nondimeno, proprio perché sia evidenziato sine ira et studio l’apprezzato livello artistico ed espressivo dell’opera, occorre segnalare che, qua e là, è possibile percepire la presenza di qualche scivolamento rispetto al tono complessivo dello spettacolo: innanzitutto, alcuni passaggi possono suonare eccessivamente ripetitivi, specie per il pubblico contemporaneo, non certo abituato – come quello greco – alla ripetitività formulare ed enciclopedica del mondo antico; inoltre, alcune scelte linguistiche non sembrano particolarmente pregnanti e portatrici di senso (valga, ad esempio, il “resterai sempre nel mio cuore” che il nonno Cadmo pronuncia rivolgendosi mentalmente al dipartito nipote Pentèo: sintagma reso insopportabile dal suo abuso nelle trasmissioni televisive che fanno volgare spettacolarizzazione del dolore umano).

Antonio Stornaiuolo

Teatro Mercadante  – Teatro Nazionale
piazza Municipio, Napoli
contatti: https://www.teatrostabilenapoli.it/

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