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Il regista di Tangerine firma il suo sesto film, una fiaba al contrario sul sogno americano a due passi dall’opulenza da favola di Disney World.

Una scena del film

Una scena del film

The Florida Project di Sean Baker è uno di quei film che forse non vedremo mai nelle sale italiane, fatta eccezione per una striminzita settimana nella stanzetta più piccola del cinema radical chic, quello che si fregia di avere una programmazione variegata.
The Florida Project è un film che, con ogni probabilità, vedremo, invece, nella rosa dei nominati agli Oscar, quella pellicola di cui qualcuno avrà sentito parlare, ma dai, sì, quello che hanno presentato a Cannes, no?
Questo rimetterebbe le cose a posto, dopo che Tangerine, altro film diretto e sceneggiato da Baker, è stato escluso da qualsiasi forma di riconoscimento ufficiale della Hollywood bene nel 2016. Ma questo era prima che Moonlight, cruda storia di omosessualità nel ghetto, soffiasse il titolo di Miglior Film alla favola amara tutta lustrini e lacrime di La La Land.
Un po’ una favola al contrario, questo The Florida Project lo è. Perché, a uno sputo di distanza dal Walt Disney World Resort alla periferia di Orlando, esiste una serie di squallidi motel dalle pareti coloratissime a celare il grigiore – economico, sociale, emotivo – dei suoi occupanti. Gli abitanti di questi castelli desolati vengono lasciati soli dalle autorità, mentre a pochi km, separati da strade con nomi da favola, come Seven Dwarfs Lane (via dei Sette Nani, nda) c’è una delle macchine attira-soldi più grandi degli Stati Uniti.
In uno degli appartamenti senza cucina del Magic Castle Motel, vivono Moonee (l’incredibile Brooklynn Prince), sei anni, e sua madre Halley (l’esordiente Bria Vinaite), che di anni ne avrà una ventina. Moonee passa le giornate estive coi suoi amici Scooty e Dicky, a cui si aggiungerà la piccola Jancey da uno dei motel vicini. I loro giochi sono un misto di fantasia, quella fantasia di cui solo chi ha poco o niente è dotato, e di illegalità, quell’insieme di marachelle, piccoli furti e comportamenti antisociali che assurgono ad atti rivoluzionari contro il sistema.
Come quando Moonee e i suoi amichetti appiccano un incendio a un motel abbandonato. Come quando Halley e tutti gli altri abitanti del Magic Castle si accalcano per vedere cosa succede e a riprendere, smartphone alla mano. «È meglio di quello che si vede in TV» dice Halley, entusiasta, avida di emozioni che possano alleviare la noia della sua esistenza, tra pochi soldi, ricettazione e prostituzione, mostrando un’incapacità di distinzione tra realtà e finzione finché non è la realtà stessa a bussare alla porta, nella forma di polizia e assistenti sociali.

Una scena del film

Una scena del film

A nulla servirà l’avere dalla propria il manager del motel Bobby Hicks (Willem Dafoe, la star di questo film a basso costo), burbero ma buono, come il più classico degli aiutanti nelle favole. Bobby costantemente si ritrova a fare da punto di riferimento per Halley e Mooney, prendendone le difese, per riparare al suo rapporto incostante e ormai interrottosi con una figura femminile nella sua vita – che sia moglie o figlia, non ci è dato sapere.
The Florida Project è un film impietoso, duro, ma anche divertente, eccetto per l’ultima scena, che fa ridere senza volerlo. Ed è qui che il film perde, come Halley e gli altri al motel, il suo contatto con il reale a favore di un simbolismo che non gli giova. Perché The Florida Project, con quel finale che vede Mooney e Jancey, mano nella mano, correre lontano dalle autorità, verso il castello di Disney World, verso un mondo di ricchezza e infanzia felice che sempre sarà loro precluso, non è I 400 Colpi. Quella scena finale, girata con la steadicam, cozza con il resto del film e non ha la stessa potenza emotiva e simbolica della corsa di Antoine Doinel verso il mare. Si tratta, comunque, dell’unico momento che non convince di un film altresì perfetto. Peccato, tuttavia, che si tratti proprio del finale, un’occasione sprecata per chiudere una pellicola certamente interessante in maniera efficace.

Stefania Sarrubba

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