“Richard II”: etimasia del potere secondo Stein
Dal 5 al 10 dicembre, nel cartellone dello Stabile napoletano di scena Shakespeare per la regia di Peter Stein, che fa indossare gli abiti del sovrano inglese all’attrice Maddalena Crippa.
“Non siamo nati per pregare, ma per comandare!”, con questa frase lapidaria, il sovrano Richard II mette a tacere le accuse che si rivolgono reciprocamente Thomas Mowbray, duca di Norfolk, e Henry Bolingbroke, duca di Hereford, riguardo l’uccisione di un altro duca, quello di Gloucester, zio del regnate.
L’espressione, al di là della particolarità della situazione in cui viene pronunciata, esprime tutta l’ambiguità di questo re d’Inghilterra. Legato ancora ad una visione medievale dell’onore e delle armi e ancorato al suo scettro in forza dell’investitura per grazia divina, Richard II si presenta algida figura, capricciosa, spietata e incline agli stravizi; per poi, una volta deposto come sovrano, mostrare tutta la sua umana fragilità, nel riconoscere l’impotenza di ogni individuo davanti alla vita e la precarietà di ogni esistenza. La gamma cromatica delle sfumature dell’animo e della mente di Richard II sono indagate con temperamento da Maddalena Crippa. Il regista tedesco Peter Stein ha immaginato che le parole di Richard – nella bella traduzione dall’opera di William Shakespeare fatta da Alessandro Serpieri – fossero recitate da una donna, aggiungendo che «in questo modo diventa ancora più chiaro il carattere inconsueto di questo re e gli aspetti fondamentali della discussione politica risultano più evidenti».
Richard II è, tra i drammi del Bardo, forse il meno dinamico per situazioni, mostrandosi più incline alla riflessione filosofica a cui fa specchio il monologare dei personaggi. La discussione politica si argomenta nel passaggio da un potere regale, imposto dalle convenzioni e consuetudini antiche, ad un potere, invece, voluto, riconosciuto e condiviso dai sudditi, che si spinge verso la concezione moderna di un ancora lontano senso democratico. E la questione ha la sua eco più risonante nel duello verbale tra Richard II e Gaunt, il duca di Lancaster, interpretato da un degno di nota Paolo Graziosi. Al suo capezzale, l’anziano duca che ha dovuto accettare la volontà regale di vedere esiliato il figlio, Bolingbroke, il futuro Henry IV, ricorda alla maestà del nipote come la sua amata Inghilterra, il suo Paese, colpa le scelte politiche impopolari e avventate, stia diventato il suo letto di morte.
Dapprima Richard si allontana dall’Inghilterra – e viceversa – per recarsi in Irlanda, e poi è il trono a farsi sempre più distante da lui, un trono che sarà occupato da altri e che, in una simbolica ed intensa immagine resta vuoto: etimasia di un potere e di un sentimento di giustezza, moderno, di là ancora da venire; di un giorno del giudizio atteso da chiunque sia suddito o cittadino.
A contenere la visione registica è la scena di Ferdinand Woegerbauer, una scatola nera su cui si muovono i quindici attori – oltre ai già citati Crippa e Graziosi; Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Andrea Nicolini, Graziano Piazza, Almerica Schiavo, Giovanni Visentin, Marco De Gaudio, Vincenzo Giordano, Luca Iervolino, Giovanni Longhin, Michele Maccaroni, Domenico Macrì, Laurence Mazzoni – dalla quale sbalza fuori, dal fondo nero, soltanto la pedana col trono, per poi essere inghiottita dal buio della scura parete, a seconda dei luoghi abitati dalla drammaturgia, disegnati sul palco dalle luci di Roberto Innocenti. Queste, insieme alla scenografia e ai costumi di Anna Maria Heinreich, creano immagini che sembrano avere un debito con l’arte figurativa. Si ricordano i polittici a fondo oro, all’epoca coloratissime, delle chiese medievali, e la pinguedine della pittura cinque-seicentesca, e ancora il contemporaneo squallore del grigio del carcere dove, rinchiuso, Richard fa i conti con se stesso. Convivono, quindi, visivamente tre tempi: il Medioevo di Richard II, personaggio storico, l’età moderna in cui scrive Shakespeare e il tempo in cui lo spettatore è chiamato ad assistere alla messinscena, per rimarcare l’universalità e l’urgenza attuale intorno alla legittimità e alle conseguenze del potere.
Peter Stein definisce Richard II «un giocatore, un attore, ma pur sempre un re che, anche dopo la sua deposizione, rimane un re»; e l’attore, il suo ruolo, è l’aspetto che la regia ha curato con intensità ed eleganza lavorando col cesello sulla voce e sul corpo degli interpreti, fino a disegnare con i loro gesti simmetrie nello spazio, che completano la scena. Il classico shakespeariano è stato restituito attraverso la centralità della parola recitata, e attraverso di essa il travestimento di Richard, donna e attore, assume ancora più peso quando afferma che “recita in una sola persona le parti di molti e nessuna ne contempla”, mentre è proprio in quel nulla esistenziale che contempla la parte recitata da tutti.
Antonella D’Arco
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