“Happy End” di Michael Haneke [CINEMA]
L’ultima opera del regista austriaco è una commedia cinica su ipocrisie familiari e cambi generazionali che generano un’inquietante frattura tra la disillusione della società contemporanea e la Vecchia Europa.
Non dovrebbe necessitare grandi presentazioni il 75enne Michael Haneke, uno dei registi più importanti almeno degli ultimi 20 anni, autore di autentici capolavori tra cui Funny Games (1997, e il remake shot-for-shot del 2007), La pianista (2001), Niente da nascondere (2005), Il nastro bianco (2009) e il penultimo Amour (2012), vincitore del Premio Oscar 2013 come “miglior film straniero”. Capace come pochi di abbinare a grande estro creativo una raffinatezza e una forza fuori dal comune, quella che scava nelle ipocrisie e nelle umiliazioni più velate dell’animo umano, Haneke non è mai stato e mai sarà una pedina dell’industria cinematografica, e a testimoniarlo ci sono i cinque anni che intercorrono tra il delizioso Amour e Happy End, che è stato selezionato per rappresentare l’Austria agli Oscar 2018 come “miglior film straniero” dopo aver partecipato, tra gli altri, all’ultimo Festival di Cannes.
In Francia, precisamente a Calais, città di confine con uno dei più grandi centri d’accoglienza per migranti d’Europa, si racconta la storia della famiglia Laurent. Georges, un Vecchio e importante uomo d’affari in pensione (Jean-Louis Trintignant), patriarca della famiglia e di una società edilizia, ha lasciato il controllo del suo patrimonio alla figlia Anne (Isabelle Huppert), fidanzata col banchiere inglese Lawrence (Toby Jones). L’altro figlio Thomas (Mathieu Kassovitz), è un uomo apparentemente felice di un nuovo matrimonio ma consuma, perlopiù in una chat, una relazione con un’amante. Le nuove generazioni della famiglia sono invece rappresentate da Pierre (Franz Rogowski) un trentenne alcolista allo sbaraglio, ed Eve (Fantine Harduin), tredicenne dal viso angelico ma dallo spirito sadico.
Attraverso una serie immediata di provocazioni e vecchie ossessioni, Haneke costruisce nel suo film un senso di fragilità perpetua, che si riflette nel racconto di una famiglia altoborghese allo sbando. La nostalgia e l’interesse verso tutto ciò che ha reso possibile al patriarca Georges di creare un impero non coinvolge più i figli, né tantomeno i nipoti, avvolti in un baratro di aleatorietà che nasconde grave smarrimento e profondo dolore.
Il linguaggio che viene sin da subito identificato tra gli strumenti anestetici del cinismo, della cattiveria e della perversione è quello del web, e nella fattispecie dei social network. I risultati devastanti che creano i nuovi linguaggi sono gli stessi, sia che avvengano tra ragazzini che riflettono sul valore della vita e della morte mentre scorrono con leggerezza scene terribili sugli schermi dei loro smartphone, sia che avvengano tra adulti in scambi di lettere virtuali, dove scrivere del desiderio supera l’atto, e diventa degenerazione autosufficiente. Il regista austriaco sceglie, come spesso ha fatto nelle sue opere, di esplorare quello che racconta immergendosi nel pieno delle ipocrisie umane, senza mai sottrarsi alla potenza della controversia e a quel senso di sofferenza intima dei personaggi raccontati senza veli, e che per questo egli sembra quasi disprezzare dal profondo. Dirige con maestria un cast dal valore sensazionale, dove ogni interprete è un valore aggiunto, a cominciare dai meravigliosi Trintignant e Huppert, passando per gli eccellenti Kassovitz e Jones, e i notevoli giovani Rogowski e Harduin, tutti completamente compenetrati nei meccanismi costruiti dalla regia e dalla drammaturgia. Per ambientare il racconto viene scelto uno sfondo esemplare, un luogo-simbolo del nuovo millennio: la Calais spazio di transito per rifugiati, posto dove avvengono flussi migratori visti quasi come forma di nuovo schiavismo, dove tanti profughi arrivano nella speranza di partire per la Gran Bretagna. Il potere autodistruttivo dell’alta borghesia europea che ha portato alla sopraffazione sull’altro e su ciò che di più caro lo circondava, sembra un richiamo evidente ad opere come Il fascino discreto della borghesia (1972) di Luis Buñuel (anche per alcuni espedienti tecnici come i rumori di fondo sopra le voci) e Festen – Festa in famiglia (1998) di Thomas Vinterberg. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal suicidio irresponsabile delle giovani generazioni, specchio di una società ormai votata alla falsità. Questi sono i cardini della riflessione di Haneke che, nonostante la similitudine di atmosfere e temi con alcune opere precedenti, questa volta si trova ad essere molto lontano da quella densità drammaturgica che ha contraddistinto gran parte del suo cinema, a favore di ritmi estremamente dilatati, a tratti logoranti e faticosi da sostenere, favoriti da una macchina fissa e lunghi piani sequenza, che tuttavia diventano il manifesto metaforico e formale di una cifra stilistica preziosa che sopravvive e si rilancia.
Luca Taiuti