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Sul palco del Piccolo Bellini in scena, dal 9 al 14 gennaio, la nuova produzione di Casa del Contemporaneo, Le funambole, liberamente ispirato al racconto Maruzza Musumeci di Andrea Camilleri, per la regia di Rosario Sparno, anche nelle vesti di attore al fianco di Antonella Romano.

Fonte foto ufficio stampa

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Passeggiando per le viuzze di un paesino del Sud Italia è possibile, ancora oggi, scorgere delle vecchine, memoria storica di quei luoghi, intente a ricamare, guardinghe, ma in attesa di esser interrotte nel loro lavoro da un viandante qualsiasi, per raccontare una storia che hanno serbato nel cuore. È quanto avviene in un paesino della Sicilia più remota, nell’immaginaria Vigata, dove è ambientato il cunto siciliano di Andrea Camilleri che il regista Rosario Sparno ha messo in scena ne Le funambole. Ad attenderci sulla strada sono due fratelli, interpretati dallo stesso Sparno e da Antonella Romano, che danno avvio a questa narrazione dal sapore antico, a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del secolo scorso, intrisa di magia. Ricamano anche loro, un filo di ferro però, “il fierro è forte e con un filo di fierro si possono raccontare storie scantuse, ma bedde assai”, col quale creano delle sculture, opere della stessa Romano, che, oltre ad essere attrice intensa, presenza consapevole e potente nel corpo e nella voce, si mostra artista a tutto tondo, nella sua propensione alla scultura, attraverso le installazioni che costituiscono la scenografia alle sue spalle.

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Come due aedi, Omero contemporanei, ci raccontano la  storia di Gnazio Manisco che, costretto ad andare in America per cercare lavoro, una volta di ritorno dall’altro continente, comprò un appezzamento di terreno in Contrada Ninfa, terra ritenuta maledetta dai più del piccolo paesino natio, e sposò Maruzza Musumeci, donna bellissima e ammaliatrice, che, però, credeva di essere una sirena. E una sirena lo era per davvero. Da quel momento gli accadimenti che si susseguono sono avvolti dal mistero: la necessità di Maruzza di farsi costruire due cisterne, riempite con acqua salata, per nuotarci almeno sei ore al giorno; la morte di un vicino di Gnazio, Aulisse Di Mare, e la sparizione di suo figlio, Aulisse anch’egli, vendetta delle sirene sul mitico Ulisse di Itaca che osò sfidarle; la volontà di Minica, “la catanonna“ di Maruzza, che decide di morire gettandosi in mare, generando il primo dei terremoti che avrebbe risucchiato negli abissi Contrada Ninfa. Il riferimento all’Odissea è nell’episodio di Aulisse, ma è anche la lingua di Camilleri a prestarsi alla tradizione orale dei rapsodi e alla consuetudine di tramandar leggende, di voce in voce, come quella di Colapesce che regge la Sicilia sott’acqua, il cui destino è ricordato nella sorte che tocca al figlio di Gnazio, Cola per l’appunto, che, disperso su una nave, andrà a vivere, insieme alla sorella Resina, in una grotta sottomarina.

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L’attrazione verso la figura fantastica della sirena trova un precedente nella letteratura siciliana in Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mostrando tutta la fascinazione che il mito e l’elemento sopranaturale esercitano sugli uomini, soprattutto sugli uomini nati in una terra che galleggia sul mare. In Camilleri e nell’allestimento teatrale di Sparno il mare è l’elemento di vita, morte e di rinascita. Quella dove ad aspettarci erano i due fratelli e che inizialmente appariva come la soglia di una strada, forse invece, è l’antro dove si sono rifugiati Cola e Resina e sono loro a cantarci la loro storia. Una storia di contrasti tra il maschile e il femminile, tra due mondi, uno patriarcale terragno e l’altro matriarcale marino, tra la natura e il soprannaturale, tra il razionale e il fantastico, tra la terra e il mare che si mescolano nella fantasia e i cui confini sono labili, talmente labili da iniziare e finire tra la spuma delle onde.

Antonella D’Arco

 

Piccolo Bellini
Via Conte di Ruvo, 14 – Napoli
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