“Wonder” di Stephen Chbosky [CINEMA]
Il regista di Noi siamo infinito dirige un classico dramma di formazione americano sull’infanzia, una favola sognante deliziosa ma ricca di stereotipi.
Il romanzo di formazione è diventato un po’ il campo di battaglia principale di Stephen Chbosky. Infatti lo scrittore e regista statunitense aveva spopolato nel 2012 con il suo Noi siamo infinito, pellicola sull’adolescenza di grande successo in America, ed è tornato a dirigere Wonder, tratto dall’omonimo prospero besteseller di R. J. Palacio.
August (Jacob Tremblay), detto “Auggie”, è un bambino affetto dalla Sindrome di Treacher Collins (malattia dello sviluppo craniofacciale). Per la prima volta nella sua vita dovrà andare in una scuola pubblica per frequentare la quinta elementare, visto che precedentemente era stato costretto a studiare a casa per via dei numerosi interventi chirurgici al viso. Come prevedibile, la nuova esperienza di Auggie con i coetanei si rivela essere un percorso difficile che riuscirà a superare conquistando tutti, anche grazie all’aiuto di una premurosa mamma Isabel (Julia Roberts), di un esilarante papà Nate (Owen Wilson), oltre che della sorella Olivia (Izabela Vidovic).
Come quasi ogni racconto generazionale americano che si rispetti, sin da subito il racconto si basa sui classici stereotipi del genere. Ci sono quasi tutti: le difficoltà a scuola, i bulli, le amicizie che vanno e vengono come le promesse, il prof di colore e il preside giudizioso e comprensivo, il cane amato dalla famiglia che si ammala, la mamma che non ha finito gli studi, la sorella che soffre per non aver mai beneficiato di una sintonia con la madre, e tanti altri. Ci sembrerebbe quasi di assistere una caricatura degli anni ’50 più che una storia ambientata nella contemporaneità, se non fosse per alcuni riferimenti come Star Wars e Scream, che diventano la referenza temporale principale. Il film è diviso in capitoli che portano il nome e il punto di vista dei personaggi che gravitano attorno all vita di Auggie; questo espediente narrativo è tanto efficace, specie quando regala grande fluidità alla narrazione, quanto impreciso, quando il punto di vista viene scavalcato o dura molto meno degli altri. L’ottimo ritmo del racconto è sicuramente una delle peculiarità che permettono a Wonder di configurarsi come opera di largo consumo, e l’infanzia diventa un microcosmo per raccontare ingiustizie sociali, razziali, individuali, in un mondo di adulti complessi.
In questa direzione appaiono compenetrate le figure femminili che predominano, ossia la madre interpretata da una Julia Roberts intensa ma che finisce a tratti per scimmiottare una donna d’altri tempi, una matura Izabela Vidovic nel ruolo della sorella Via (diminutivo di Olivia), forse la figura più interessante e forse irrisolta del film. A completare il cast di attrici, la metamorfica Danielle Rose Russell nei panni dell’amica Miranda, prima asettica e poi magicamente dolce, premurosa e membro a tutti gli effetti della famiglia, uno dei tanti voli pindarici di scrittura, nonostante venga più o meno giustificato dalla trama. Sul contraltare delle presenze maschili, oltre al protagonista Auggie interpretato dal talentuoso Jacob Tremblay già conosciuto e apprezzato in Room (di Lenny Abrahamson, 2015), e gli amici/nemici interpretati da piccoli attori prodigi che avvalorano la teoria truffautiana della pubertà come momento florido per le doti recitative, significativa è la presenza di Owen Wilson, figura inspiegabilmente relegata a un ruolo da comprimario, dispensatore di un’ironia che alleggerisce toni già “light”. Il cast riesce, attraverso delle interpretazioni a tratti commuoventi, a restituirci il senso di alcune verità universali, sfiorando appena un didascalico buonismo. Se quello che sorprende è un utilizzo saggio del mondo della fantasia, tra i pregi della scrittura di Steve Conrad (sceneggiatore di I sogni segreti di Walter Mitty di Ben Stiller, 2013) e in tal senso deliziosa è la sognante favola spaziale del percorso scolastico di Auggie vissuto come uno sbarco sulla luna, quello che delude e che finisce per fare di Wonder un film per ragazzi dalle buone potenzialità ma dalla resa “mainstream” è senza dubbi la mancanza di un vero spessore poetico sulla questione della diversità, nonostante un maldestro tentativo strappalacrime sul finale tutto made in USA, su cui è meglio stendere un velo pietoso.
Volendo cercare qualche titolo simile per temi o toni, siamo molto lontani dalle dimensioni più “indie” di Boyhood (di Richard Linklater, 2014), dove pure si accarezzava consapevolmente qualche luogo comune misto ad una malinconia più vicina al mondo de Il piccolo principe, e risulta impossibile, e forse perfino ingiusto, fare un confronto con opere come Dietro la maschera (di Peter Bogdanovich, 1985) o The Elephant Man (di David Lynch, 1980), film che, in maniera diversa, portavano alto il livello del lirismo verso ben altri orizzonti.
Luca Taiuti