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Diretto da Luca Guadagnino, il film sull’amore del giovanissimo Elio per l’affascinante Oliver sullo sfondo della campagna italiana del 1983, ha fatto gridare al miracolo. A torto.

Una scena

Una scena

Fresco di nomination agli Oscar, Call Me By Your Name di Luca Guadagnino, terzo episodio della sua “Trilogia del Desiderio” e tratto da un romanzo di André Aciman, è stato tra i film più osannati dello scorso anno. A pochi giorni dall’uscita italiana, prevista per il 25 gennaio, c’è da scommettere che Guadagnino riscuoterà in patria lo stesso successo raccolto altrove. Eppure.
Eppure, ci siamo avvicinati alla storia d’amore acerba tra Elio (Timothée Chalamet) e Oliver (Armie Hammer) in punta di piedi, con lo stesso timore reverenziale che si prova per qualcosa che si immagina maestoso come, che so, la Gioconda di Leonardo al Louvre e di cui poi ci si ritrova a constatare le dimensioni ridotte, tutto sommato deludenti.
L’affair di Elio Perlman, adolescente americano di origini ebraiche, con l’amico di famiglia Oliver, ospite del padre del ragazzo professore di archeologia, si consuma in una cittadina del nord Italia nella pigra estate del 1983. Un piccolo mondo antico in cui la nostalgia del ventennio fascista è reale e ancor più significativa se accostata all’estremo liberalismo che vige in casa degli ebrei Perlman, dove a farla da padrone è la cultura, ossimoricamente ostentata con naturalezza. Una lingua franca per pochi eletti, una lingua che Elio e Oliver condividono senza sforzo e che sembra respingere chiunque non viva all’interno di quelle mura, inclusa Marzia (Esther Garrel), la ragazza di Elio.
Ebbene, Call Me By Your Name è un film fatto di tempi lunghi, tempi morti, tempi di attese che paiono infinite e che malamente ricompensano chi ha aspettato. La fotografia su pellicola 35mm di Sayombhu Mukdeeprom accentua i toni caldi e la luminosità delle afose giornate estive, restituendo perfettamente quella sensazione di dilatazione spazio-temporale, quella bella alienazione, la sacra noia estiva, complice la colonna sonora in cui Sufjan Stevens incanta con l’intensa Mystery of Love, candidata, a ragione, agli Oscar.
Un’infatuazione, più che un vero amore, che dura un’estate appena, quella di Elio per Oliver. Un sentimento che è anche un rito di passaggio, una pietra miliare nella vita di chiunque, ma che assume una forma affettata e pomposa in cui è difficile ritrovare l’onestà che vorremmo da una storia così. Non basta raccontare una storia d’amore difficile, sentita e omosessuale per fare di questa una bella storia, una storia vera. Carol di Todd Haynes fa, in questo senso, molto più di quanto Call Me By Your Name riesce a fare, nonostante le ottime interpretazioni di Chalamet e Hammer, ben diretti da Guadagnino.
C’è sicuramente della verità nella smania di Elio, nella sua esplosiva energia sessuale che si manifesta soltanto a partire da un tocco fintamente casuale e innocente di Oliver, e c’è della triste onestà nel suo attendere, e nel nostro aspettare insieme a lui, sotto i rami, seduti su quel gradino, che il bell’americano ritorni, fingendo che non ci importi, ma eccome se ci importa.

Una scena

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“Later,” dice Oliver per congedarsi e sparire, con il tono casuale di chi ha tutto dalla sua: bellezza, fortuna, successo. Il tono di chi sa di avere potere su un altro, ma che finge di non accorgersene. Ogni “Later” per Elio diventa un buco nel petto, colmabile soltanto attraverso la sua musica. Spinge i tasti del suo piano con tutta la violenza e l’aggressività di cui non è capace con Oliver, in balìa di emozioni che ancora non sa capire e riconoscere.
Qualcosa stride nella relazione tra i due, nella resa di alcuni momenti del loro rapporto che paiono anni luce lontani dall’essere calati nella realtà, facendo assomigliare Call Me By Your Name al sogno in dormiveglia che potremmo fare su una spiaggia assolata nel tardo pomeriggio, ma che, aperti gli occhi, puf, è sparito. Così come l’amore di Elio e Oliver, così come l’hype per il film, una vicenda che aspira ad essere universale, ma che traballa e che sicuramente non merita la sequela di premi che le si vorrebbero assegnare.
La scena della pesca che ha fatto tanto parlare – Elio si masturba su una pesca matura, la stessa che poi il suo amato mangerà, umiliandolo – è un espediente manierista e allegorico che vorrebbe ribadire la superiorità di Oliver sul ragazzo, ma che proprio non riesce a raggiungere l’esito sperato in termini di erotismo e squilibrio di potere emotivo. Non vorremmo dire di aver visto più onestà nella scena in cui Jim di American Pie decide che è arrivato il momento di deflorare la famosa torta di mele, ma quasi.
Dove sta, allora, la verità di Call Me By Your Name? Dove capiamo l’hype di romanzo e film, già definito il Moonlight per bianchi e ricchi? Se tragicamente alcune opere di valore perdono qualcosa in epiloghi scialbi, sono, invece, rarissimi i casi in cui una pellicola viene salvata al 90° minuto – in questo caso intorno al 120° – da un finale che mette insieme i pezzi confusi raccolti fino a quel momento.

call me by your name

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Ad accarezzarci la testa è il signor Perlman, che per tutto il film se ne sta sullo sfondo al pari di uno dei suoi libri preziosi sullo scaffale in salotto, dedito a vivere la sua perfetta vita matrimoniale con Annella (Amira Casar), un idillio che quasi infastidisce Elio e che è effettivamente troppo bello per essere vero.
È l’incredibile Michael Stuhlbarg, l’“uomo serio” dei fratelli Coen (protagonista del loro sottovalutassimo A Serious Man), nonché il Sy Feltz della terza stagione di Fargo, a prenderci la mano, come avremmo voluto avessero fatto i nostri genitori all’epoca della prima cocente delusione amorosa. Con un’onestà disarmante che lo mette a nudo, fa un discorso a suo figlio che è tutt’altro che una paternale. È un discorso alla pari, sull’amore, le possibilità, le occasioni mancate, ma soprattutto sul trovare la bellezza nella sofferenza, nel godersi il contraccolpo che solo un sentimento forte può causare. Un sentimento che ad alcuni è tristemente precluso e che rende chi lo prova superiore, non inferiore.
Elio forse non l’ha ancora capito, ma ci arriverà. Il suo ultimo, struggente sguardo in macchina, contrario a quello sornione, fascinoso e foriero di possibilità positive di Cate Blanchett alla fine di Carol, parla direttamente al pubblico. È il momento perfetto di verità che abbiamo aspettato per 132 minuti. Pare, tra le lacrime, dirci “Later,” proprio come faceva il suo amato ormai lontano. Che, più tardi, appunto, arriverà qualcosa, qualcuno, ma che mai, mai dimenticherà, dimenticheremo, questo momento ed è giusto e bello che sia così. Ma può questa consapevolezza guarire un cuore spezzato? Possono dieci splendidi minuti salvare un’intera pellicola? No.

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