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Al Piccolo Bellini di Napoli, dal 16 al 28 gennaio, in anteprima nazionale, in attesa del debutto ufficiale il prossimo 1 luglio al Ravenna Festival 2018, il progetto di Martone che trentacinque anni fa rivoluzionò il modo di intendere il teatro.

di Vincenzo Del Gaudio

Fonte foto Ufficio stampa

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Per leggere l’operazione legata alla ripresa di Tango Glaciale di Mario Martone – allestito per questa nuova versione da Raffaele Di Florio e Anna Redi – bisogna assumere uno sguardo bifronte. Uno sguardo che riesca a tenere insieme il significato che quello spettacolo ha avuto per quel momento della storia del teatro italiano denominato “nuova spettacolarità” e allo stesso tempo cosa oggi rimane non solo di quella esperienza ma soprattutto cosa significhi riprodurre nel 2018 uno spettacolo di quel genere. Per rispondere alla prima domanda bisogna tenere presente che il lavoro si inseriva all’interno di quella serie di fenomeni che Giuseppe Bartolucci chiamò “post-avanguardia” e che guardava alle esperienze del teatro-immagine americano come momento fondativo di un nuovo modello scenico che dialogasse in maniera proficua con i media audiovisivi. Proprio scrivendo di Tango Glaciale nel 1985, tre anni dopo il suo debutto, Carlo Infante conia il termine Videoteatro che non solo riconosce l’importanza del cinema e del video all’interno delle pratiche della scena ma allo stesso tempo implica una riflessione sullo statuto del teatro stesso. Tango Glaciale dunque rappresenta una sorta di spettacolo di soglia, non soltanto dal punto di vista dei codici della scena, bensì anche rispetto alla fruizione e allo statuto spettatoriale.
Inscenando una camera da cui tre giovani si aprivano verso il mondo, il loro mondo, il mondo dei consumi di massa, quello della pop art, del fumetto, del cinema, della new wave, del punk, del weekend postmoderno raccontato da Tondelli, lo spettacolo metteva in scena in una sorta di “camera astratta” (titolo non a caso di un altro spettacolo decisivo per lo sviluppo del Videoteatro del 1987 di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro), l’immaginario di una generazione e lo faceva, forse in maniera ingenua e non del tutto consapevole, tenendo presente che non bastava pensare a statuti spettatoriali singoli, cioè pensando rigorosamente come separati i consumi di massa da quelli relativi al teatro, bensì – come aveva pioneristicamente intuito Alberto Abruzzese sulle pagine di “Rinascita” tra il 1975 e il 1980 – pensando allo spettatore come teatrale, come al centro di una complessa rete mediale che ne determinava costitutivamente lo sguardo.

Fonte foto Ufficio stampa

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Dunque entrare al Piccolo Bellini avendo presente tali coordinate significa per forza di cose aspettarsi, da un lato, un’operazione di archeologia del teatro e, dall’altro, l’entrare in una sorta di macchina del tempo nutrita dallo stesso regista presente in sala che prima dello spettacolo chiede alla platea chi fosse presente nel 1982, e le mani che si alzano non sono poche influendo in maniera determinate ad acuire l’effetto nostalgia.
Lo spettacolo da subito è frenetico, le musiche contribuiscono a riportare lo spettatore all’interno dell’atmosfera degli anni Ottanta, i movimenti sincopati degli attori (Jozef Gjura, Giulia Odetto, Filippo Porro che interpretano i ruoli che furono di Andrea Renzi, Licia Maglietta e Tomas Arana) richiamano da vicino la biomeccanica mejercholdiana in salsa Talking Heads che è un marchio di fabbrica di alcune produzioni non soltanto teatrali del tempo e che è sicuramente al centro della riflessione di Tango Glaciale. L’utilizzo del video anche se rimodulato in chiave digitale da Alessandro Papa però sembra richiamare da vicino il rapporto video e corpo in scena tipico degli albori della sperimentazione videoteatrale dove il medium audiovisivo viene contrapposto al corpo vivo fino a pensare il corpo come centro di in una sorta di dialettica dell’immaginario tra le figure dei consumi di massa e i corpi che tali figure producono. Forse è proprio questo il limite strutturale di un’operazione come quella di Tango Glaciale, quella di parlare all’immaginario di chi quel periodo l’ha vissuto e non riuscire a riportate le ansie teoriche, sceniche e generazionali all’attuale generazione di giovani.

Fonte foto Ufficio stampa

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Insomma, Tango Glaciale nel 1982 parlava la lingua di quella generazione – lingua non del tutto comprensibile nel contesto attuale – ne esaltava i codici. Inoltre, ripensare la tecnologia analogica alla luce del digitale significa ripensare anche all’immaginario che la tecnologia digitale determina per evitare che l’operazione di ripristino piuttosto che un operazione di reloded diventi un’operazione di riproposizione legata a logiche interne ad una sorta di teatro-nostalgia.
Pertanto l’ultima domanda a cui dobbiamo provare a dare risposta è a cosa significa ri-produrre, nel senso stretto di una nuova produzione, uno spettacolo come Tango glaciale oggi. Se uno spettacolo teatrale, come diceva già negli anni ’60 del Novecento Peter Brook, si scrive sulla sabbia in quanto esso si costituisce a partire dalle forme dell’immaginario del proprio tempo storico, riscrivere uno spettacolo oggi significa far dialogare in maniera feconda i codici scenici e tecnologici del passato con lo spirito del tempo, per dirla con Morin, cosa che in questo caso non sempre avviene.

Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14 – Napoli
contatti: 0815491266 – www.teatrobellini.it

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