Perché (anche all’estero) Sanremo è Sanremo
La 68esima edizione del festival della canzone italiana si conferma un contenitore splendidamente povero di contenuti e brani memorabili, ma imprescindibile. Le considerazioni sulla prima serata a cura di una napoletana trapiantata a Londra.
di Stefania Sarrubba
È di nuovo quel periodo dell’anno. Se non sapete di cosa sto parlando, state mentendo. Questa settimana è LA settimana: il Festival di Sanremo è giunto alla sua 68esima edizione. Per i prossimi cinque giorni possiamo dimenticarci delle elezioni, della strage di Macerata, del trauma del fascismo mai assimilato compiutamente. In fondo, perché parlare di tutto ciò quando possiamo analizzare al dettaglio gli outfit di Michelle Hunziker? Quando possiamo twittare cattiverie sull’espressione mummificata di Claudio Baglioni, sull’essere pesce fuor d’acqua di Pier Francesco Favino? Quando possiamo ribadire quanto faccia schifo il festival, quello stesso festival che però non riusciamo a fare a meno di seguire?
Fiorello l’ha capito, muovendosi nel suo monologo dalle battute, passate sotto silenzio, sul presidente turco Erdogan in visita a Roma e sulla censura ai giornalisti ai modi da gioco aperitivo, imitazioni stantie incluse. L’ideale per un pubblico che vuole spegnere il cervello, annichilarlo, spedirlo al villaggio vacanze per una settimana tutto incluso.
Il villaggio vacanze Sanremo divide, ma, soprattutto e ancora, unisce. Ciò è ancor più vero per gli espatriati che contano su RaiPlay e sulle magie dell’Eurovisione per sentirsi a casa.
Dopo la scorsa edizione, vista con un gruppo di amici connazionali che hanno potuto godere del Sanremo Drinking Game da me creato apposta per l’occasione, questa volta sarà un Sanremo in solitaria, sebbene mai per davvero grazie a Twitter.
In fondo, basta avere ben chiare le proprie priorità. Basta mettere da parte articoli seri da scrivere per blaterare su un festival che ho sempre guardato, fin da piccola, per più edizioni di quante voglia ricordare. Un festival di cui l’anno scorso ho provato a spiegare l’importanza sociale al mio ragazzo inglese, ricevendo in cambio uno sguardo perplesso e vagamente disinteressato.
Perché non c’è nulla come Sanremo. L’Eurovision Song Contest si avvicina alla gara nostrana in quanto festival-figlio che ne riprende lo scopo, insieme alle sfumature pop-trash, eppure niente può eguagliare la sensazione di essere nel salotto della nonna ad aprire scatole di biscotti danesi che amaramente scopriamo contenere aghi, ditali e spagnolette, quella sensazione che Sanremo, come la proustiana madeleine, restituisce alla memoria. No, non si può spiegare il festival, bisogna viverlo.
E così, quando metto piede a casa, accendo il computer ancor prima dei fornelli e parte il collegamento a Raiplay, parte il mean tweeting selvaggio, partono i gruppi di discussione con gli amici ai due lati della Manica. Con buona pace di Theresa May, almeno finché non si arriva al tanto sospirato accordo sulla Brexit, Londra resta parte dell’UE e ciò mi permette di vedere legalmente il festival e tirare un sospiro di sollievo da lontano: anche quest’anno le cose in Italia non sono cambiate. I fiori son sempre lì, il disturbatore di turno che sale sul palco a protestare c’è, i momenti di imbarazzo pure. Le caselline dell’intrattenimento canoro made in Italy sono state spuntate tutte. La situazione è stabile, anzi, se possibile, appare lievemente peggiorata.
Avevamo lasciato il power duo formato da Carlo Conti e Maria de Filippi, quell’asse Rai-Mediaset il cui successo, che li si ami o li si odi, pareva impossibile da replicare, a ragione. Le aspettative per questa edizione sono talmente basse che persino la parola scelta dai Jackal per essere ripetuta da presentatori e concorrenti ne è un indizio. Da “termostato” dello scorso anno – che richiede un minimo di padronanza della lingua per essere pronunciata – a un verso come “gnigni”. Avremmo dovuto capirlo.
In un microcosmo dove tutto resta uguale a sé stesso, potrebbe sembrare un colpo di genio cambiare sigla, se solo non fosse stata rimpiazzata con un motivetto imbarazzante che va a sostituire quello storico, intramontabile. Ed è solo l’inizio.
In effetti, guardando questo Sanremo pare di assistere al saggio di canto di un’amica a cui mi sono sottoposta volontariamente l’estate scorsa. Ore di canzoni che normalmente non ascolterei, cantate da persone che fino a due secondi prima nemmeno conoscevo e introdotte goffamente da presentatori che improvvisamente smettono di saper fare il proprio mestiere per una platea convinta di essere al concerto di Capodanno al Musikverein di Vienna. Tra stecche clamorose e brani tragicamente tutti uguali – sia ai precedenti degli stessi artisti in gara che ad altri delle scorse edizioni – il Sanremo di Baglioni comincia male e continua peggio.
Un aspetto in comune con le altre edizioni, tuttavia, c’è. Anche questo Sanremo, come tutte le edizioni precedenti, va annoverato tra gli ultimi baluardi di quell’italianità più pura, testarda e becera che fa pomposa autocelebrazione di una musica che non esiste più per un pubblico che non esiste più. E allora perché lo guardiamo?
Il festival è un potente indicatore socio-antropologico, per cui non valgono snobismi di sorta. Non parla direttamente a noi, ma parla certamente (anche) di noi. Cristallizza il meglio e il peggio dell’essere italiani, condensandolo in cinque serate di discutibile entertainment nazionalpopolare, intervallato da frequenti pubblicità, troppo lunghe quando si resta sul divano, ma sempre troppo brevi quando si vuole svuotare la vescica.
Gli americani hanno il Superbowl, a noi tocca Sanremo. E ce lo teniamo volentieri, sguazzando nel piccolo stagno mediatico, chiuso all’esterno, in cui ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli, in cui abbracciamo il credo sanremese per l’ennesima edizione. L’ultima, ci diciamo, ma sappiamo che si tratta di una bugia. Allora, per una volta, ammettiamolo senza remore: certo, non ci piace il festival, ma oh, quanto ci piace guardarlo!