Lunga giornata (di nebbia) verso la notte
A conclusione della trilogia sulla drammaturgia statunitense contemporanea, ideata e prodotta da Tieffe Teatro Milano, dopo la messa in scena di Zoo di vetro di Tennessee Williams e di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, Arturo Cirillo sceglie l’opera del Premio Pulitzer Eugene O’Neill in scena sul palco del Teatro Nuovo di Napoli, dall’ 8 all’ 11 febbraio.
di Antonella D’Arco
Un tavolo di vetro, una bottiglia di whisky, quattro bicchieri e una poltrona entro un cerchio giallo che disegna sul pavimento il ring teatrale della scena. Sul fondo, avvolte nel buio, quattro postazioni, che si mostreranno essere quattro specchi di altrettanti camerini, per gli attori che fanno il loro ingresso sul palco, nell’ombra.
La scena di Dario Gessati rivela l’intenzione registica di Arturo Cirillo, il gioco metateatrale in cui cala la drammaturgia di Eugene O’Neill. Una visione, questa, nella quale Cirillo aveva già proiettato i precedenti Zoo di vetro di Tennessee Williams e Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, entrambi, insieme a quest’ultimo spettacolo, progetto di Tieffe Teatro Milano. Non è l’unica costante del lavoro sulla drammaturgia statunitense affrontato dal regista, l’altra immancabile presenza fissa, in questo percorso iniziato circa due anni fa, è Milvia Marigliano, stavolta a vestire gli abiti di Mary, moglie e madre morfinomane di Lunga giornata verso la notte. Attorno alla sua dipendenza ruotano le esistenze del marito James Tyrone, attore sul finire di una carriera che mai ha davvero spiccato il volo, interpretato da Arturo Cirillo, sul palco oltre che metteur en scene, e dei due figli, James jr, il maggiore, ed Edmund, il secondogenito, rispettivamente Rosario Lisma e Riccardo Buffonini.
Lunga giornata verso la notte, nell’originale in lingua Long Day’s Journey into Night, già completo nel 1942, fu messo in scena, per la prima volta nel 1956 e un anno dopo vinse il Premio Pulitzer, il quarto per il suo autore, quest’ultimo postumo. La volontà di O’Neill fu quella di non rappresentare il testo prima che fossero trascorsi venticinque anni dalla sua morte, ma la moglie Carlotta Monterey, a cui l’opera è dedicata, riuscì ad aggirare i vincoli testamentari e a far mettere in scena la drammaturgia.
Le parole di Lunga giornata verso la notte raccontano di un inferno familiare vicino allo scrittore. Non pochi, infatti, sono i punti di contatto con la sua vicenda personale: il padre era stato un noto attore in gioventù; la madre aveva vissuto in un collegio cattolico e l’eco è presente nei ricordi di Mary quando confessa che da ragazza avrebbe addirittura voluto prendere i voti, prima di incontrare James e d’innamorarsi di lui; il fratello di Eugene O’Neill era un alcolizzato, così come James jr ed Eugene si era ammalato di tisi, patologia di cui è affetto Edmund. Ma Edmund non è l’unico malato da curare in questa storia senza speranza. Mary è la prima a mostrare la sua ferita. Di ritorno dalla clinica nella quale era stata ricoverata per salvarsi dalla dipendenza da morfina, il suo fallimento, una volta tornata a casa, è prefigurazione del fallimento dell’intera famiglia. A minare l’insano e labilissimo equilibrio all’interno delle pareti domestiche è la presenza incombente del sospetto. I tre uomini sospettano una possibile ricaduta della donna e lei sospetta che il raffreddore di Edmund, sia, com’è, una malattia ben più grave di quanto tutti le vogliano far credere. Tutti sospettano, ma, in realtà, tutti sanno e fingono. Fingono una forza che non gli appartiene, una fede nell’altro che gli è accanto e quindi anche in loro stessi, che hanno smarrito.
Sono quattro spettri che abitano una lunga agonia e che provano a ritrovarsi, affannosamente nel dolore, schivando la nebbia che ha invaso la casa. Quando Mary chiosa a James: “Le tue previsioni non sono un granché, guarda come sta cominciando a scendere la nebbia”, annuncia l’inizio della fine. Una fine che è anche termine della finzione scenica tra i personaggi e gli attori. I camerini sul limite del fondale vengono adesso abitati, raccolgono le accuse, i ricordi, la sofferenza, i timori di Mary, James e dei loro figli. La nebbia che avrebbe dovuto loro offuscare la mente, già ottenebrata dai vizi di ognuno, fiumi di alcool e droga, ridà, invece, loro la vista; si rivela impalpabile velo dietro al quale far emergere, finalmente, la verità. É di nuovo Mary, una intensa Milvia Marigliano per forza e sensibilità, a raccontare questa verità. Nella memoria di quello che è stata e di quello che poteva essere; nel dolore di madre che ha perso un figlio, Eugene, nato prima di Edmund, dopo la nascita del quale, con spirito autodistruttivo per il senso di colpa mai placato a causa di quella morte che ha condannato la sua anima all’ oblio, ha cominciato a drogarsi; nella rassegnazione di aver accanto un uomo che con la sua inopia sentimentale l’ha devastata, confessa a se stessa e a noi la verità.
Una verità celata nel cuore dei personaggi e che traccia la profonda solitudine che ognuno di loro abita. C’è distanza mentre James parla al secondogenito dell’infanzia difficile che l’ha portato a essere il tirchio e arido uomo che è, c’è distanza quando Edmund confessa il suo animo da poeta e ancora quando James jr, dedito al whisky e alle facili compagnie, mostra tutta la sua debolezza e il bisogno di calore, in quella lunga giornata umida, nel racconto dell’incontro tra lui e una prostituta.
Arturo Cirillo disegna Lunga giornata verso la notte come un lungo tramonto, un lento percorso verso il baratro, il cui buio illumina la scena sin dall’inizio. È questo buio a caratterizzare la mancanza di un vero e proprio contrasto nella drammaturgia e nella regia, di cui ha sofferto la messa in scena, vuoi nell’omissione del personaggio di Cathleen, vuoi nell’assenza di innovate intuizioni registiche, che pure ci sono state nei precedenti spettacoli che fanno parte del medesimo progetto. Resta l’ intelligenza scenica e l’occhio attento alla recitazione, curata dal regista, nel circondarsi da un’ottima compagnia: la già citata Milvia Marigliano a cui si sono affiancati Rosario Lisma, Riccardo Buffonini e lo stesso Arturo Cirillo. E resta anche il discorso dell’alternanza del dentro e fuori dal teatro che, se in Zoo di vetro e Chi ha paura di Virginia Woolf? faceva brillare i ruoli dell’attore e del regista, adesso oltre all’attore sembra voler far rilucere la figura dell’autore. Quando le luci degli specchi dei quattro camerini invadono gli occhi degli spettatori, adesso anche loro davanti allo specchio, i personaggi appaiono come sagome mentre il solo Edmund-Eugene O’Neill è bagnato dal chiarore; sembra quasi che quel “per un po’ di tempo fui tanto felice”, che appartiene al passato della madre, venga trasferito su di lui, come augurio e faro che lo conduca oltre la nebbia.
Teatro Nuovo
Via Montecalvario, 16 – 80134 Napoli
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